Concerti Musica

Godspeed You! Black Emperor @ Magazzini Generali, Milano (MI)

Marco Romagna

Hope, speranza. Quella sempre viva e quella ormai dissolta. Quella che ancora e per sempre combatte per liberarsi e quella che di fronte agli occhi ha solo l’inesorabilità dell’abisso. Quella che nella fisicità della materia cerca da sempre e disperatamente la manualità analogica di un’umanità perduta. Quella che si oppone agli orrori della realtà e del capitalismo digitale brandendo, quasi fossero uno scudo, i muri sonori realizzati rigorosamente senza l’ausilio di sintetizzatori, ma usando gli archi come tamburi e cassa di risonanza, suonando le chitarre con il cacciavite e sfregando i piatti della batteria con l’archetto. Quella che, con Constellation records, pubblica ostinatamente la sua musica (a volte orgogliosamente infinita, molto di rado sotto i 15-17 minuti a brano, per spingersi in alcuni casi oltre la mezz’ora) in un vinile che non per caso necessita delle mani di chi ascolta, del braccio meccanico del giradischi e dello sfregamento della puntina, magari inserendo nel packaging degli album mappe stellari, istruzioni in per realizzare una molotov o monete deformi schiacciate da un treno in corsa. Ma soprattutto quella di una performance di musica e immagini rigorosamente in 16mm, il più possibile sporche e granulose nel loro continuo passare per gli ingranaggi, che si ritrovano in costante dialettica, variabili eppure inscindibili, segmenti emotivi della stessa e ogni volta straordinaria esperienza. Un’esperienza, appunto, che vuole essere profondamente fisica, di orecchie che fischiano e di occhi abbacinati dai flicker sovrapposti, di dispositivi elettrici e di pedali schiacciati a piedi nudi, di corde sfregate e di immagini manipolate e riplasmate direttamente con le dita o con una boccia di fronte al proiettore che gira. Un’esperienza di pensieri che corrono e di dolori che crescono, di metafore e di distorsioni, di strisce di pellicola messe in macchina e di strumenti musicali effettati a creare impasti sonori unici nel panorama mondiale fra il post-rock, il prog, il noise, il drone, lo space e il minimalismo sperimentale. Oltre il concerto e oltre il linguaggio filmico, oltre la musica e oltre il cinema. Prima fra le due tappe italiane del tour a supporto dell’ultimo album Luciferian Towers, quella dei Magazzini Generali di Milano segna il ritorno dei Godspeed you! Black emperor in una forma forse mai così ostentatamente malinconica, sentimentale, sofferta e apertamente politica, sottolineata sullo schermo dalle (orride) manifestazioni a supporto di Trump sovrapposte a un aereo che precipita in picchiata, per poi giungere alla repressione, alla fine della civiltà, ma anche alla distruzione dei simboli del Potere con l’unica apertura finale al colore con il rosso del fuoco. È la messa in scena performativa e crossmediale del sentimento barricadero di chi si sente sospeso sul baratro fra la speranza e la sfiducia, fra l’auspicio e la disfatta di un’umanità che si sta autodistruggendo, declinato in una potenza musicale e visiva epica, imponente e profondamente lucida, orgogliosamente fuori dal tempo nelle sue strutture classico-sinfoniche divise in movimenti e insieme avanguardista nelle sue sonorità elettriche e larsen. Una Resistenza pan-artistica e ipnotica sospesa fra passato e futuro, alchemica, espansa, pura, totale, profondissimamente umana. Forse l’espressione più vicina, per avanguardia, unione di linguaggi e forza antisistemica, a quelli che furono i primi Pink Floyd, e che Roger Waters (impossibile non pensare al suo recente e magnifico Us+Them, realizzato in co-regia con Sean Evans) sta sempre più riportando in auge ed esplicitamente politicizzando nei suoi concerti, nelle sue opere e nelle sue parole.

Non è certo un caso che nella line up del misterioso gruppo di culto canadese attivo dal 1994, insieme alle tre chitarre David Bryant, Efrim Menuck e Mike Moya, al violino Sophie Trudeau, al (contrab)basso Thierry Amar, al basso Mauro Pezzente e alle due batterie Aidan Girt e Timothy Herzog, sia accreditato sin dal 2010 della ripresa delle attività dopo i 7 lughi anni di pausa, con il ruolo di proiezionista, uno fra Karl Lemieux, filmmaker sperimentale con otto regie alle spalle presentate fra Rotterdam e Venezia, e Philippe Leonard, celebrato videoartista che, dopo aver esposto nelle più importanti gallerie delle Americhe e d’Europa, è ora (e anche nella tappa ai Magazzini Generali) impegnato a fondo sala con i suoi tre EIKI, spesso accesi in contemporanea a “bucarsi” l’uno con l’altro, a immergere non solo lo schermo alle spalle dei musicisti, ma anche le silhouette di chi suona nella luce a 24 fotogrammi al secondo. In principio è una riga, è la sporcizia del fotogramma, è la polvere che passa nelle lenti intrappolata sul supporto fisico, proiettato non certo a caso su un telone poco tirato che anche dalle sue pieghe trasmette matericità. È una striscia in 16mm tenuta al collo e poi caricata nei ticchettii del proiettore, mentre il noise di Hope drone nient’altro aspetta che la scritta Hope per esplodere con il rock delle sue subliminali progressioni melodiche. E poi sono i palazzi in costruzione, le ascensioni, Bosses hang che con i suoi “capi impiccati” per liberarsi dallo sfruttamento e dal giogo del Capitale diventa palazzi modulari in costruzione, quotazioni di borsa, zenitali sul razionalismo (fascista) dei palazzi di potere, e infine riflessi di luce sull’acqua che diventano altro spingendosi alla ricerca dell’invisibile, un po’ come quando la puntina scorre sulla superficie del disco cercando un’incisione su cui vibrare. Sono doppie proiezioni, flicker e perforazioni, stormi in volo persi e ripresi fra fuori fuoco e fuori campo, fotogrammi strisciati, polverosi e granulosi di vento sulle piante e di nubi che viaggiano, tra frammenti di sublime musicale, teoria, sperimentazione e debordante emotività. Sono ralenti e accelerate, immagini in negativo, tralicci e animali, con un cervo grattato a mano frame per frame fino a rendergli il corpo sfuggente, provvisorio, estemporaneo proprio come i loop di violino e l’effetto che ne avvicina il suono sfregato a quello soffiato di un corno, o come quei due batteristi diversissimi per stile e per forza (Girt dal tocco felpato e quasi jazzistico, Herzog nerboruto e potente come un carpentiere del suono) che si alternano fra la “classica” batteria principale e quella percussiva. Salgono sul palco gli ospiti sassofonisti Mette Rasmussen e Edoardo Marraffa, mentre la scaletta procede con Glacier, Fam/Famine, Undoing a Luciferian Towers, Cliff, e l’immagine si blocca, rallenta, si scalda, va fuori quadro e poi corre come per illudersi di recuperare il tempo. Ma il tempo (di un accordo, di un’immagine, di un’umanità perduta) passa, e non torna più. L’umanità, la società e il mondo precipitano al grido Make America great again, mentre la civiltà finisce fra testate intelligenti, droni, mirini, esplosioni e bombe, in un montaggio vorticoso che quasi ha l’effetto straniante della stop motion. I container e le navi merci lasciano lo spazio alla città e poi ai paesaggi industriali, e dopo più di 90′ di concerto in rigoroso bianco e nero arriva il colore delle luci notturne e delle fiamme, mentre gli scontri di piazza repressi diventano il noise che apre The Sad Mafioso, movimento centrale di East Hastings che chiuderà il concerto. I Godspeed you! black emperor vanno via uno per uno mentre gli amplificatori vanno avanti a sibilare e a rilanciare i loro loop, mentre continuano indefessi il noise e le ultime immagini in 16mm. Alla ricerca di una nuova macchia, di un nuovo granello, di una nuova linea. Di un nuovo segnale di vita. O forse di morte, con la pellicola – anche lei, simbolo di resistenza – che brucia e si deforma. Vittoriosa contro le Torri Luciferine finalmente distrutte? Forse, o forse in futuro, basta non smettere mai di porsi domande, di prendere coscienza, di lottare per l’equità. Di certo bisogna distruggere per poter ricostruire, ripartire dal nulla, dal buio, o meglio dalle orecchie che, ancora per un po’, continuano a fischiare. Come una speranza ancora bruciante. Come una catarsi.



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