Arti Performative Focus

Chi vuol essere Visionario? Il Kilowatt Festival come arte

Renata Savo

«Non si può cambiare il mondo? Costruiamone un altro!», è stata la chiave di s-volta di una vita, per Luigi Dadina, altrimenti noto come “Gigio”, attore e tra gli storici fondatori del Teatro delle Albe, e protagonista di quella sorta di “autobiografia visionaria” che è Racconti su un attore operaio. Luigi Dadina nel Teatro delle Albe (Titivillus, 2017) di Michele Pascarella, presentato quest’estate a Sansepolcro, al Kilowatt Festival. Tema dell’edizione 2017 del festival estivo è stato, così, “Il principio speranza”: centrale nella filosofia di Ernst Bloch, è una “coscienza anticipante” che ha in sé implicita l’idea della realtà come possibilità.

L’immaginazione e il pensiero di una realtà altra possono vincere, superare, la «paura»: «Pensare è oltrepassare», così scriveva il filosofo tedesco. La necessità di “cambiamento”, parola con cui sono di solito i politici a riempire le loro bocche, accanto alla volontà di addentrarsi in una dimensione a misura d’uomo, si riversa in un luogo fatto di tempo e spazio condiviso e desiderio di alterità. Il teatro è un altro mondo, in cui sembra trovare piena, ancora più autentica, espressione proprio il principio speranza di Bloch.

Passando attraverso il “principio speranza”, la direzione artistica di Kilowatt Festival – incarnata nella sensibile e acuta personalità di Luca Ricci – anche quest’anno ha oltrepassato gli steccati della sua stessa definizione, rinnovandosi a partire dalla partecipazione attiva di chi per tradizione fruisce del prodotto culturale, non lo “propone” né ha possibilità di “discuterlo” in un dialogo aperto: il pubblico. A partire dal 2007, infatti, viene data la possibilità a cittadini di Sansepolcro (trentuno, per questa edizione), di scegliere una parte degli spettacoli in programma (quest’anno nove), e di presentarli ogni sera al pubblico secondo il proprio punto di vista. La riflessione critica si protrae all’indomani dello spettacolo, durante incontri aperti in cui artisti, critici e Visionari si confrontano sui rispettivi sguardi. Per l’edizione 2017, grazie a CapoTrave/Kilowatt Festival, ente capofila, il progetto ha raggiunto una dimensione europea con BeSpectACTive!, finanziato dalla Commissione Europea, a testimonianza del successo dell’operazione, non solo in Italia.

Non possiamo non considerare che il teatro e la cultura in generale stanno subendo in questi ultimi anni un’evoluzione straordinaria per quanto riguarda il modo di fare critica e la progettazione culturale. Soprattutto la prima delle due.

Per comprendere la portata di tali trasformazioni, potremmo rinviare a un testo molto interessante, sviluppato nella forma del dialogo platonico, scritto da Oscar Wilde nel 1881: Il critico come artista. Vale la pena citarlo, perché il massimo poeta e romanziere dell’Estetismo inglese qui esprime un concetto fondamentale, e cioè che non vi può essere arte senza critica. Protagonisti del dialogo sono Ernst e Gilbert, dove il secondo presumibilmente incarna la posizione dell’autore: «Credimi, Ernst – afferma Gilbert – non c’è vera arte senza consapevolezza, e consapevolezza e spirito critico sono la stessa cosa. […] un’epoca senza critica è un’epoca in cui l’arte è immobile, statica, ridotta a riprodurre gli stessi schemi, oppure è un’epoca priva di ogni forma d’arte. […] non v’è mai stata un’epoca creativa che non fosse anche un’epoca di vitalità critica, poiché è il talento critico che inventa forme nuove».

Ma la critica, per sua stessa definizione, è operazione semplicemente legata al pensiero, alla capacità di discernimento (dal suo etimo greco: krinomai: “io separo”). Pensare, separare, scegliere, sono questioni che analogamente premono direttori artistici, spettatori, e, non ultimi, gli artisti.

Simone Faloppa e David Batignani

In Costruire è facile? di Batignani/Faloppa, per esempio, presentato presso lo Spazio Bernardini – Fatti della Vetrata Antica, i due attori, che ricordano nella ieraticità dei gesti il duo storico Rem & Cap, diventano teatranti-artigiani e mostrano a venti spettatori, disposti su tre lati della scena, il processo di costruzione di un’architettura fisica complessa, per arrivare ad affermare, nella parte finale della performance, che la realtà è il risultato di un processo costituito da mosse semplici, la cui totalità richiede tempo e capacità di invenzione: «Guarda che se sei parte del problema, e lo sei, – dice uno all’altro – puoi anche essere parte della soluzione». Una volta costruito lo spazio, il pubblico è invitato ad avvicinarsi attorno a un tavolo di cartone, la creazione appena realizzata, e a confrontarsi collettivamente rispetto a problemi che riguardano il territorio mettendo in pratica uno sforzo di “immaginazione civica”.

Stefano Panzeri

Naturalmente, spettacoli come Costruire è facile?, produzione CapoTrave/Kilowatt, hanno espresso al meglio la vision del festival, laddove altri, selezionati dal gruppo dei Visionari – tra quelli in totale visti nei giorni del 21 e del 22 luglio – non sempre lo hanno fatto. Un esempio è dato da Terramatta, tratto dall’omonimo libro autobiografico di Vincenzo Rabito, e diretto e interpretato da Stefano Panzeri. Accompagnato dalle musiche dal vivo eseguite da Francesco Andreotti, lo spettacolo, seppure gode di un’ottima performance attorale, presenta una scelta registica che non valorizza il potenziale drammaturgico dell’elemento musicale, relegato a una funzione “decorativa” (con il musicista disposto di spalle in fondo alla scena) e d’”intermezzo” rispetto all’impianto narrativo. Lo spettacolo intreccia vicende autobiografiche del protagonista, un uomo qualunque, semianalfabeta, con quelle di altre persone realmente esistite, disegnando un ritratto vivace delle condizioni di vita del dopoguerra; e lo fa attraverso un personaggio ben costruito, che con l’autore e protagonista s’incontra “a metà strada”, sfoggiando una lingua nuova – nelle parole di Panzeri all’indomani dell’incontro tra artisti, critici e Visionari – «tra il siciliano, il brianzolo e il friuliano».

The hard way to understand each other

Altro spettacolo selezionato dal gruppo dei Visionari, cui va una menzione speciale tuttavia, è The hard way to understand each other della compagnia Teatro Presente, sull’incomunicabilità attuale all’interno dei rapporti umani e la difficoltà di stare assieme in un’epoca dominata da dispositivi tecnologici e forme alternative di comunicazione a distanza, di cui si è succubi in svariati momenti di aggregazione sociale. Lo spettacolo diretto dalla giovane e talentuosa regista Adalgisa Vavassori si serve in modo originale di un linguaggio teatrale che sa far a meno della parola, senza che questa sottrazione diventi “pantomima”. Alla voce degli attori (di cui resta soltanto il labiale, come nel cinema muto) si sostituisce la presenza di un secondo attore per ciascun personaggio, abbigliato alla stessa maniera, che rappresenta il doppio di un “io” esteriore e riporta – esternandoli in una gestualità naturalistica, con ben riusciti esiti comici –  commenti e verità interiori.

Il Kilowatt Festival, nel suo tentativo esemplare di dare voce alla cittadinanza, costruire una coscienza critica, civica, basata sull’ascolto e sullo scambio di opinioni, lascia riflettere, ancora una volta, su come siano mutate le modalità d’intermediazione culturale, dibattito che è destinato ad avere un bel seguito nei prossimi mesi (e che trova un’ampia trattazione nel libro di Giulia Alonzo e Oliviero Ponte Di Pino, Dioniso e la nuvola, 2017).

Se, allora, Oscar Wilde poneva il critico su un piano superiore persino all’artista, oggi le cose stanno in maniera molto diversa. Artisti, critici, operatori e pubblico, posti in determinati momenti sullo stesso livello, possono condividere i rispettivi strumenti e collaborare. Esperienze come quella dei Visionari o i laboratori per spettatori critici, così come il successo di modalità di lavoro come il teatro partecipato (a tal proposito, si legga il bellissimo pezzo uscito pochi giorni fa su Doppiozero, a cura di Lorenzo Donati, che parla di “teatro salvato dalle moltitudini”), lasciano intuire quali saranno gli sviluppi del mondo dell’arte, che si vede in sostanza travolto da quello stesso movimento globale in cui il dèmos e «l’alleanza dei corpi», per citare il titolo di un saggio di Judith Butler, stanno avendo sempre più spazio e voce – nel bene e nel male.

Sicuramente, tali modalità di coinvolgimento contribuiscono a creare dei processi di identità del festival con il territorio in totale armonia e accettazione da parte della comunità che lo abita, invitata non solo a costruirlo, ma anche a raccontarlo, oltre che a viverlo.



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