Arti Performative Focus

Il nord e il sud del teatro in Italia? Due esempi che rovesciano gli stereotipi

Renata Savo

Com’è bello fare festival da Trieste in giù! L’estate assai densa di appuntamenti festivalieri è ufficialmente iniziata, ma prima di iniziare le danze sotto il caldo sole di luglio e agosto, vogliamo raccontarvi l’esperienza di due festival primaverili, entrambi giovani e assai diversi, che hanno avuto luogo agli estremi geografici della nostra penisola.

 

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www.shakespeare si è svolto nel sud-est dello stivale, in Puglia, regione solitamente – e assai ingiustamente – poco appetibile per gli addetti ai lavori. In particolare, siamo stati nella piccola e radiosa Bitonto, in provincia di Bari, accolti da una compagnia attiva sul territorio da più di dieci anni, i Fatti d’Arte: dei veri professionisti del mestiere, quanto a progettazione di eventi, realizzazione e a capacità organizzative. Da anni i Fatti d’Arte ragionano, proprio qui, nella cittadina di provincia pugliese, su come divulgare la drammaturgia shakespeariana e trasmettere ai cittadini di qualsiasi età l’amore per il bardo inglese. E lo hanno fatto anche quest’anno, con la loro “settimana shakespeariana” che si è svolta dal 16 al 22 aprile, per il sesto anno consecutivo.

Bitonto (BA). Dettaglio su asfalto. Foto di Redazione

Punto di riferimento della vision del festival, l’assunto dello studioso Jan Kott che negli anni Sessanta, con grande lungimiranza, definiva Shakespeare un «nostro contemporaneo». E non si può dire che non lo sia tuttora, alla luce dell’enorme varietà e quantità di riscritture, riallestimenti e molto altro di opere shakesperiane note. Ecco, allora, che l’impegno divulgativo dei Fatti d’Arte si dimostra tanto maggiore se si pensa che questa compagnia, diretta da Raffaele Romita, ha riportato alla luce sul palco del Teatro Traetta di Bitonto La commedia degli equivoci, uno dei testi meno fortunati del drammaturgo inglese. Uno spettacolo che affronta Shakespeare mescolandolo alla verve della Commedia dell’Arte, e che quindi in virtù di questa scelta avrebbe bisogno di qualche riaggiustamento per non scadere nel cliché in cui la Commedia dell’Arte spesso ricade, (auto)relegandosi a un circuito di diffusione “diverso” [ne parlava qui la nostra Gertrude Cestiè], perché appartenente a una tradizione a uso e consumo del mercato (motivo per cui nacque, d’altra parte, in quanto genere), e dunque a un artigianato cristallizzato nel suo passatismo, piuttosto che all’arte con i suoi punti di rottura e la sua capacità di interpretare la contemporaneità.

“La commedia degli equivoci” della compagnia Fatti d’Arte. Foto di Francesco Moretti

La sinossi della Commedia degli equivoci (The Comedy of Errors) si presenta simile alla “commedia degli equivoci” plautina (I Menecmi), e a tutti gli effetti ha le caratteristiche di un’opera di stampo classico (che, fra l’altro, rispetta le tre unità aristoteliche di tempo, luogo e azione). Proprio per la sua classicità latina presenta dei tratti stereotipati che l’avvicinano nella sua definizione canonica alla Commedia dell’Arte di molti secoli dopo e la cui nascita, a sua volta, è di poco anteriore a quella di Shakespeare a Stratford-upon-Avon. Il poeta e drammaturgo inglese, com’è noto, amava l’italia e più volte si è confrontato con la produzione letteraria della nostra penisola, con la sua tradizione che ai tempi, forse, tanto “tradizione” non era, essendo neonata. Da allora, la Commedia dell’Arte è rimasta tra i generi teatrali più longevi. Questo non solo per quel che riguarda gli allestimenti: nonostante le difficoltà e la fatica che comporta per i suoi attori, attesta infatti numeri da guinness dei primati anche per l’età dei suoi più grandi interpreti.

“Arlecchino servitore di due padroni”, regia di Giorgio Strehler, messa in scena di Ferruccio Soleri con la collaborazione di Stefano de Luca, e con Enrico Bonavera nei panni di Arlecchino andato in scena al Teatro Argentina di Roma dal 15 al 20 maggio

Basti pensare all’enorme successo dell’Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni allestito da Giorgio Strehler e ripreso da Ferruccio Soleri: nei panni di Arlecchino sui palcoscenici di tutto il mondo dal lontano 1947 fino a poche settimane fa – cioè all’età di 88 anni – Soleri ha passato il timone del suo Arlecchino a Enrico Colavera, che con la sua maschera e con altrettanta audacia e generosità di interpretazione – estremamente virtuosistica – nella stessa settimana in cui Soleri diceva addio alle scene a Milano ci ha stupito con i leggendari e comici lazi dello zanni bergamasco nell’opera di Goldoni, al Teatro Argentina di Roma. Ossequioso della «regia critica» strehleriana (cfr. Meldolesi), l’allestimento di Soleri vede un’accentuazione dei suoi elementi di modernità: Arlecchino non solo è comico nel suo modo di relazionarsi ai personaggi dell’intreccio, ma anche nel rapporto diretto con gli spettatori, che sono interpellati come farebbe un one man show.

“La commedia degli equivoci” di Fatti d’Arte. In foto, Liliana Tangorra e Mariantonia Capriglione

Tornando alla necessità di adattare la Commedia dell’Arte al gusto coevo, senza che questo significhi ambientare l’azione ai giorni nostri o in un’epoca definita, La commedia degli equivoci dei Fatti d’Arte, seppur dotata di un linguaggio che strizza l’occhio al pubblico enfatizzando caricature e atteggiamenti leziosi e grotteschi propri del genere tradizionale, porta avanti l’intuizione, giusta, di mescolare i riferimenti temporali. Mescola, in scene e costumi, il contemporaneo con l’antico, usando colori sgargianti e volumi degli oggetti sproporzionati: tratti di pop-olarità– come gli innesti musicali dubstep – che di sicuro colpiscono un pubblico non avvezzo alle sale teatrali. Una regia che gioca su effetti di luce e ritmo ci ha regalato, inoltre, momenti di sospensione drammatica con musica e siparietti che hanno spostato il baricentro della performance dal prodotto artigianale museale a quello artistico e contemporaneo.
Sullo sfondo di due città rivali, Siracusa ed Efeso, Egeone, mercante di Siracusa, al cospetto di Solino, il duca di Efeso, racconta la storia del suo naufragio di molti anni prima, in cui furono dispersi la moglie Emilia, il figlio Antifolo, e il servo Dromio; ma sia il figlio che il servo hanno un identico fratello gemello, che porta lo stesso nome, e che si è salvato dal naufragio. Da qui, si può più o meno immaginare l’intreccio che condurrà all’agnizione finale, tra gelosie, fraintendimenti, truffe e riscatti. Molto bravi gli attori, soprattutto le interpreti femminili, Liliana Tangorra e Mariantonia Capriglione. La caratterizzazione dei personaggi, di cui emergono bene le tradizionali relazioni, in primis quella servo-padrone (con un lavoro molto accurato sulla voce per quel che riguarda il servo Troilo, dai tratti animaleschi), andrebbe accentuata affinché l’equivoco sia soltanto scenico, perché lo spettatore a volte si sente un po’ affaticato nel distinguere l’uno dall’altro personaggio gemellare.

Teatro Traetta di Bitonto. Foto di Redazione

La compagnia ci ha poi accompagnato e raccontato del suo percorso, del progetto “Ci scusiamo per il ritardo. Storie di Shakespeare nell’immaginario comune”: performance realizzate in collaborazione con la Ferroviatramviaria Bari Nord, una delle novità salienti di questa edizione, con cui sono state trasferite storie, immagini, evocazioni estratte dall’universo shakespeariano, così umano e così universale, sui treni, quei luoghi indefinibili in cui la vita arriva, scorre, se ne va e poi ritorna, ma non più la stessa. Ci hanno raccontato dell’impegno costante di coinvolgimento delle persone nelle loro attività, dei cineforum, delle incursioni urbane in cui i ragazzi hanno sagomato e proiettato la nota effige del ritratto di Shakespeare, ovunque nella loro città; ci hanno detto dello spazio che hanno in concessione, dove gli attori provano, crescono, fanno lievitare le idee; spazio che fiancheggia, all’interno della stessa struttura, quello dello scenografo Franco Colamorea (Presidente dell’associazione Fatti d’Arte, che ha firmato le scene e i costumi de La commedia degli equivoci). La fucina Fadatelier, dove Franco pensa e fabbrica le scene e i costumi per le produzioni dei suoi committenti è, inoltre, una delle più apprezzate dagli artisti della regione.

 

Teatro Stabile Sloveno di Trieste. Foto di Redazione

TACT festival

Ci spostiamo nel nord-est estremo della penisola, a Trieste. Città ricca sotto il profilo economico, Trieste offre ampie possibilità a chi vi abita di destreggiarsi in una buona quantità di spazi teatrali cittadini, con il vantaggio di poter accedere alla programmazione culturale degli altri centri urbani limitrofi. La vicinanza con la Slovenia, oltretutto, consentirebbe a chi possiede forti ambizioni nel campo della progettazione culturale di confrontarsi con un territorio multiculturale ricco di stimoli.

Non si giustificano, quindi, alcuni grossolani errori di un festival come il TACT – Trieste ACT festival, al quinto anno di attività, sottotitolato “festival internazionale di teatro” – che detta così sembrerebbe uno specchio per le allodole (anche lo storico Festival d’Avignon, per dire, è un festival internazionale di teatro) – se non con l’esperienza acerba della direzione artistica che fa capo al C.U.T, associazione universitaria. Più onesto, invece, quanto riportato nella brochure distribuita per la promozione, che definisce il TACT un “Festival di Scambio”, senza competitività e classifiche.
Le compagnie, bisogna riconoscerlo, sono venute pur tra mille difficoltà (tutto merito di Ilaria Santostefano che si è occupata della logistica: giovane infaticabile e intraprendente in lotta contro la burocrazia che, sì, avrebbe da insegnare agli altri) da ogni parte del mondo, e quest’anno infatti quelle che si sono esibite al Teatro Stabile Sloveno tra il 19 e il 27 maggio sono arrivate da Serbia, Lituania, Argentina, Svizzera, Iran, Spagna, Ungheria, Italia.

La mancata aderenza della comunicazione alla vision del festival, però, nonostante esso resti un unicum del panorama nostrano, compromette un tentativo di giudizio critico degli spettacoli che abbiamo visto nelle due giornate del 24 e del 25 maggio in cui siamo stati testimoni. Anche perché, diciamolo da subito, uno dei problemi seri riscontrati risiede nella visibilità dello spazio Ridotto, la sala più piccola (l’altra, invece, la Sala Grande, è perfetta ed esemplare sotto questo aspetto): la presenza dello schermo orizzontale per la proiezione dei sopratitoli in lingua italiana e in inglese, assai aggettante rispetto alla ribalta, non permetteva di stare seduti nelle prime file; allo stesso modo, stare seduti più indietro comportava di non riuscire a vedere buona parte della scena, più o meno dalla vita degli attori in piedi, in giù. Insomma, se per una ragione qualsiasi dovesse capitarvi di andare a vedere spettacoli stranieri in questa sala del Teatro Stabile Sloveno di Trieste, sappiate che vi conviene cercare posto nelle file centrali. A parte ciò, va fatto presente che su quattro spettacoli che abbiamo visto nei due giorni, alla metà sono saltati i sopratitoli (e uno dei quattro era uno spettacolo di danza, dunque non ne aveva). Pare non fosse stato a causa dello staff del TACT, ma tant’è: non abbiamo potuto apprezzare fino in fondo il testo di Darkness, degli iraniani Carbon Theatre Company, per esempio.

Le Groupe de Théâtre Antique, nato negli anni ’90 a Neuchâtel, nella Svizzera francofona, è un gruppo diretto da Guy Delafontaine composto da studenti ed ex studenti dell’Università: ha portato in scena un Satyricon da Petronio, con innesti metateatrali, goliardico e aspro al tempo stesso; la Carbon Theatre Company iraniana, con dieci anni di attività sulle spalle, diretta da Abdollah Barjaste, è stata davvero generosa, coraggiosa, nel mettere in scena la storia di Nader Shah Afshar, un sovrano realmente esistito che regnò dal 1735 al 1747, anche chiamato il “Napoleone d’Asia”: per sete di potere usò violenza contro il figlio, accecandolo, gesto di cui poi si pentì. La tragedia, a tratti macabra e dal forte impatto emotivo, mostra non il “re”, ma l’uomo in rapporto con il male da lui compiuto e verso cui nessun altro essere ha sollevato obiezione; perché davanti alla violenza «ancora oggi» – come ha poi spiegato la compagnia – «la gente resta a guardare in silenzio». La musica, carica, pesante, quasi “apocalittica”, ha svolto funzione di commento alla drammaticità del fatto, come in una partitura di Bernard Hermann per le pellicole hitchcockiane. Seppure lontano dal gusto nostrano occidentale, questo spettacolo, ambientato in uno spazio metaforico con vasche a forma di corridoi d’acqua, un tavolo, un tappeto rosso, non di regalità ma di sangue, è stato molto interessante dal punto di vista antropologico per l’idea di società che vi si riflette; ad esempio, come è stato spiegato durante l’incontro moderato all’indomani da Doriana Legge di “TeatroeCritica”, le attrici non possono essere sfiorate in scena; e anche per questo, aggiungiamo, la sinossi somigliava a un Macbeth senza Lady Macbeth.
Abbiamo poi visto L’Ispettore Generale di Nikolaj Gogol’ messo in scena da una compagnia dei Paesi Baschi, Ánima Eskola, diretta dall’attrice e pedagoga russa Marina Shimanskaya e dall’attore e regista cinematografico Algis Arlauskas. Nella regia, piuttosto sconclusionata, non era chiaro quali fossero i segni della scrittura scenica e quali invece fossero semplici “errori” non previsti: non vi è stata prestata alcuna cura verso i costumi (si percepiva un “effetto-carnevalata”), che sembravano arrangiati e cuciti all’ultimo momento; un aspetto che per la messa in scena di un testo classico pare alquanto inammissibile, equivalente al non avere rispetto nei confronti dell’autore.
Meno peggio, almeno stando alle prime impressioni dello spettacolo, è stato Carmina Burana della compagnia di danza ungherese formatasi con Cserhalmi György e Borbála Blaskó. Il primo, Cserhalmi György, pare sia uno dei più rispettati attori ungheresi: vincitore del “Silver Bear-Berlin”, ha recitato in film come Mephisto vincitore del premio Oscar come miglior film straniero e Želary nominato all’Oscar come miglior film straniero; la seconda è una danzatrice e coreografa dallo sguardo femminile insolito, che ha studiato con la Hungarian Ballet Academy e la Folkwang Hochschule di Pina Bausch. Per certi versi, è stata una sorpresa giunta al termine delle nostre due serate: ci ha fatto pensare che, probabilmente, una prossima edizione del TACT, per scongiurare l’insidia di problemi di sopratitolatura di cui sono responsabili compagnie di teatro di prosa poco esperte e non abituate a recarsi all’estero, potrebbe approfondire il discorso sul panorama della danza internazionale.
I Carmina Burana, componimenti poetici dell’XI e XII secolo, rappresentano in questo lavoro la base di una variazione tutta contemporanea, con suoni e canto dal vivo, e sebbene alcuni passaggi coreografici della performance siano risultati poco eleganti e sporchi, vi si ammira l’uso dello spazio a misura d’uomo, con bacinelle che diventano contenitori umani, vasche, pedane, lampade, prolungamenti di quegli stessi corpi danzanti; e quello della tecnica contact fissata in una partitura coreografica d’effetto. Per altri versi, invece, non si comprende come mai alcune fasi della coreografia si soffermino su una visione eccessivamente maschilista (forse si vorrebbe scimmiottare certo avanspettacolo anni ’20?). Il corpo femminile diventa un feticcio, un oggetto commestibile: la gonna di baguette di una danzatrice che esegue un ‘a solo’ sfama bocche maschili tese come quelle di cani affamati; lacci delle scarpe a punta diventano fili di un burattino femminile manipolato da un gruppo di uomini; seni-panini vengono impiantati sul costume e attaccati alle reali rotondità dei corpi. Insomma, alla fine il cattivo gusto, purtroppo, ha avuto la meglio sulle buone premesse.

Provando a trarre delle conclusioni, abbiamo presentato due modelli di festival agli antipodi, che non lo sono stati soltanto dal punto di vista geografico. Il primo, www.shakespeare, con il suo approccio diretto, schietto, utilizza il “popolare” o – se si preferisce – il “pop” (non solo nella regia degli spettacoli, ma anche in quella del progetto: street art, flash mob, proiezioni sugli edifici del paese) e lo “dichiara” nel pieno rispetto delle sue intenzioni. Il secondo, invece, si autoproclama festival internazionale escludendo la possibilità di fare rete con il territorio circostante e di richiamare l’attenzione del pubblico cittadino, nonostante le ampie possibilità concesse da una città ben posizionata sotto ogni aspetto come Trieste.
Quando lo ha fatto, una volta su due lo ha fatto nel modo sbagliato: al termine del secondo spettacolo di una delle due serate di cui siamo stati testimoni, ad esempio, il pubblico è stato invitato a condividere un pasto con lo staff e le compagnie, a quindici minuti di auto dal Teatro Sloveno, ma nessuno gli aveva detto che si sarebbe dovuto attendere che i pasti fossero stati elargiti prima a gli artisti e allo staff, e poi agli stessi spettatori, causando più di un’ora d’attesa prima di essere serviti; bene, invece, per la pausa di degustazioni di ottimi vini locali fissata ogni giorno tra uno spettacolo e l’altro.

Insomma, il palinsesto degli spettacoli ci conferma l’interesse di base di questo progetto, il TACT festival, che di sicuro rappresenta un unicum nel nostro paese. Questo interesse, però, è diverso da quello veicolato, e non risiede affatto nella sua “internazionalità”. Risiede, piuttosto, nell’offrire la conoscenza diretta di realtà off non italiane, realtà diverse, giovani e non affermate, ma soprattutto, non necessariamente “affermabili”. O ancora, nel dare la possibilità a delle compagnie amatoriali di condividere metodi di espressione e di ricerca attraverso sia l’attività mattutina dei laboratori, sia gli incontri pomeridiani che seguono la visione degli spettacoli del giorno prima. Questa, forse, sarebbe la vocazione più autentica del TACT festival. Auguriamo alla direzione del festival che l’evento possa crescere in questa direzione, con umiltà e apprendendo dai suoi stessi errori.



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