Arti Performative

#InAria. Arrivati alla fine di un inizio

Renata Savo

Uno strato di nebbia sottile copriva stamattina la Valle di Comino al mio risveglio. Il bianco candido delle nuvole arrivava a colmare l’aria che circonda le sinuose linee delle colline ai piedi del Castello Cantelmo. È strano, ma il primo pensiero è stato interpretare questo fatto come un segnale: al termine di questa intensa settimana di festival, forse #InARIA ci siamo arrivati davvero. Si sentiva nell’aria, ieri sera. Lo percepiva anche Chiara Aquaro della Compagnia Habitas che, un po’ commossa, lo ha detto al pubblico: per lei oggi sarebbe stata solo la fine di un inizio.

Serata inaugurale, 21 luglio. Foto di Giulia Tata

Una parte dello Staff di CastellinAria – Festival di Teatro Pop. Foto di Simone Galli

Ci siamo arrivati grazie ai sorrisi che i direttori artistici di CastellinAria – festival di Teatro Pop e tutto lo staff hanno diffuso a profusione. Ci siamo arrivati ascoltando le storie delle persone nuove che abbiamo incontrato. Ci siamo arrivati con la condivisione di uno spazio di riflessione e di scrittura, giù, al paese, presso l’Infopoint in Corso Gallio, scambiandoci sguardi, abbracci e racconti davanti a un pacco di ciambelline all’anice artigianali della Pasticceria “Di Tullio”, o in auto mentre risalivamo i tornanti con vista panoramica che conducono a Peschio, frazione di Alvito. Tollerati, ben accetti, dagli anziani del Circolo Sociale di cui abbiamo preso a prestito lo spazio per un appoggio; ci siamo arrivati, infine, soprattutto lassù, al Castello, tra le cui mura, sotto la luna, abbiamo visto ogni sera uno spettacolo diverso.

Niccolò Matcovich all’Infopoint del festival. Foto di Simone Galli

Finalmente, per esempio, ho recuperato L’imbroglietto – variazioni sul tema, il «cavallo di battaglia» della Compagnia Habitas: così lo ha ricordato sul palco, poco prima dell’inizio, l’orgoglioso regista e co-direttore artistico del festival Niccolò Matcovich. Orgoglioso non tanto per lo spettacolo in sé, quanto per essere riuscito a esserci, lunedì sera, 23 luglio, su quel palco ad annunciare il suo spettacolo. È la conquista dell’esistenza di quell’occasione che inorgoglisce, che rende tutto molto più speciale di una replica. E in quella occasione, posso dire di aver scoperto la bravura di una giovane attrice di cui non mi ero accorta prima – dov’ero? –  Livia Antonelli, non a caso da un anno allieva di una scuola importante come la “Gian Maria Volonté” di Roma, esperienza che fa seguito ai laboratori con maestri italiani e ai suoi studi di recitazione in Germania, a Essen, alla Physical Theater della Folkwang Universität der Künste, e a Berlino. Se ne sente molto l’influsso ne L’imbroglietto, spettacolo di cui Matcovich oltre che regista è anche autore. Lo spettacolo è un dichiarato omaggio alla coppia comica di Karl Valentin e Liesl Karlstadt, e infatti attinge moltissimo al Kabarett tedesco degli anni Venti e Trenta per linguaggio e schemi di rappresentazione. Il plot è semplice: due strambi personaggi, semi-clown, vorrebbero visitare un teatro, ma senza pagare i soli due euro richiesti, cercando a più riprese di superare l’ostacolo di un MacBook Pro con voce di assistente automatico femminile, che fa l’addetto alla biglietteria. Sotto l’ironia della situazione si può leggere un sotto-testo amaro: nel futuro di un’era in cui il teatro sarà un sopravvissuto – almeno come architettura o oggetto mitico e museificato – com’è stato possibile ridursi a questo, lasciando che la tecnologia che dovremmo padroneggiare per avanzare, sia la stessa che ci trattiene?

“L’imbroglietto” della Compagnia Habitas. Foto di Alfio Mirone

La critica, però, assai più diretta va all’ambiente teatrale, verso cui la cornice stessa del festival si pone come un Manifesto, rifuggendo quanto viene espresso sul palco ne L’imbroglietto: un teatro che si ostini a cercare tra il suo pubblico per lo più addetti ai lavori a quali veicolare la propria autoreferenzialità è condannato alla sterile ripetizione, all’incomunicabilità, alla freddezza e alla ridondanza della macchina. Per questo, forse, Stadt (Livia Antonelli) pronuncia parole incorporando una “P” aspirata come il suono di un tappo stappato dal collo di una bottiglia, fonemi che scivolano sempre più rapidi tra la lingua e le labbra fino all’afasia, fino a un «bl… bl…» di bolle. Con una capacità impressionante di controllo, una forte consapevolezza di tutte le giunture, i muscoli, i suoni prodotti dall’urto e dallo struscio dei propri piedi sul palco, Livia Antonelli esegue una partitura dalla coordinazione non facile, accompagnata dalla – ottima – spalla Valerio Puppo, con cui bene si unisce e si amalgama nei loro reiterati comici tentativi di spuntarla sulla signorina-Mac. Le scene, volutamente grottesche, si susseguono inseguendo una logica da web-link multimediale: si passa dall’ascolto di un estratto del servizio del telegiornale, diventato un cult, in cui un giornalista di Fanpage.it intervista un giapponese a Napoli il giorno di San Gennaro, a Superquark, a Star Wars, a 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Nonostante i soffi birichini del vento in un’anomala, fredda sera di fine luglio, il pubblico di ogni età, tra le risate e gli applausi, sembra aver gradito molto. La serata è proseguita nello spazio che fiancheggia il castello, tra i profumi di arrosto e di pizza, i sapori delle birre artigianali e le note rock del gruppo George & the Bijelomen.

 

(Foto di copertina di Giulia Tata)



Una selezione delle notizie, delle recensioni, degli eventi da scenecontemporanee, direttamente sulla tua email. Iscriviti alla newsletter.

Autorizzo il trattamento dei dati personali Iscriviti