Arti Performative Focus

Dal Kilowatt Festival alla stagione autunnale: a proposito delle cose che non si dimenticano facilmente

Renata Savo

Sul crinale di un autunno che ancora non si è portato via il ricordo di un’estate intensa, i passi tra le mura di una casa vuota sono come una madeleine di proustiana memoria. 

“Come va a pezzi il tempo” di Progetto Demoni. Foto di Luca Del Pia

«Come va a pezzi il tempo» è il titolo, suggestivo, di uno spettacolo visto al Kilowatt Festival di Sansepolcro, nella provincia di Arezzo; la kermesse diretta dall’associazione culturale CapoTrave/Kilowatt, in questo periodo prosegue la sua azione anche durante la stagione autunnale, iniziata a settembre, grazie a Kilowatt Tutto l’Anno, con spettacoli di teatro ragazzi, di teatro e danza contemporanei, e prove aperte al termine di residenze artistiche come quella della compagnia Sotterraneo (finalista tra l’altro al Premio Rete Critica con la più recente produzione Overload), che ne ha segnato l’apertura con Shakespearology. Come va a pezzi il tempo, dicevamo: una performance per quattro spettatori alla volta, raffinata, dal sapore nostalgico, a tratti persino dolorosa per quanto umana e vera, di Alessandra Crocco e di Alessandro Miele, in arte Progetto Demoni. Al centro, la disgregazione di una relazione di coppia. Lui è uno scrittore, forse non troppo talentuoso o forse soltanto molto poco fortunato; lei, una donna innamorata e con un progetto di vita insieme da coronare, magari in una casa più grande e accogliente per il futuro. Il tutto si svolge all’interno di un’abitazione privata, in questo luogo reale, intimo, nido costruito con amore ma anche prigione dove entriamo in forte empatia con i due personaggi, vicini fisicamente ed emotivamente. Ci sentiamo l’uno e l’altro, riconoscendoci e rispecchiandoci in una storia semplice che parla di vita, di noi, delle insormontabili difficoltà che incontriamo quando i desideri e le aspettative dell’altro non combaciano con i nostri sentimenti. Come in una sequenza a episodi cinematografica (vengono in mente, celeberrime, quelle di Citizen Kane di Orson Welles) Crocco e Miele appaiono e scompaiono tra i muri delle stanze, attraverso un montaggio che scandisce il tempo che scorre addosso all’incompatibilità non risolta, e non risolvibile, tra i due individui. A volte possiamo seguire la coppia e confonderci con loro tra il passato e il presente, gettando i nostri occhi invadenti su un letto sfatto, troppo grande e troppo vuoto, dove la donna si distende pensierosa, fondendosi con lo spazio intorno, nella nostalgia della luce naturale che l’accarezza.

“Cosas que se olvidan facilmente” di Xavier Bobés

Un’altra bellissima cartolina dal Kilowatt Festival, un vero e proprio gioiello di performance sempre per pochi spettatori alla volta, è Cosas que se olvidan facilmente dello spagnolo Xavier Bobés Solà andato in scena in prima nazionale italiana dopo ben ottocento repliche, numero di repliche giustificato al di là dell’effettiva qualità del lavoro, anche dal fatto che ciascuna replica prevede un pubblico di cinque spettatori. Anche qui il tema del tempo la fa da protagonista: attorno a un tavolo cosparso di una miriade di oggetti molto piccoli e antichi, ancora pieni dell’odore dei cassetti chiusi, i cinque spettatori assistono a un viaggio nel tempo molto particolare, attraversando la storia di Spagna e d’Europa dagli anni quaranta fino a sfiorare quasi gli anni ottanta, del Novecento. L’ispirazione viene, a Bobés, da una constatazione personale ma di cui tutti siamo partecipi: ci sono cose che stiamo dimenticando, che ora non ci sembrano importanti, ma che una volta, in assenza di altri mezzi, sono state incredibilmente utili o necessarie. Sono oggetti piccoli, quelli che ci mostrano le agili e delicate mani di Bobés, e ancora si conservano nelle case delle nostre nonne. Nei cofanetti portagioie, in scatole di latta, sopra i mobili, nei cassetti. Calendari tascabili, foto, cartoline, francobolli, lettere, e molte altre cose che non sapremmo neanche definire, dove collocare, e che mantengono per i nostri genitori un valore meramente affettivo; altri oggetti, come i rotocalchi, assumono una funzione persino “documentaria” all’interno della performance. Le copertine raccontano i fatti principali dell’anno (per i media, certo), in un susseguirsi di citazioni, immagini, che non ci sono del tutto estranee, ma neanche così familiari come se fossero “presente”. La particolarità del lavoro, ciò che lo rende davvero prezioso, consiste nel rigore della costruzione drammaturgica, che è chirurgica, matematica, ogni ninnolo spostato, ogni foto distribuita, come su una scacchiera, ha una sua precisa e insostituibile funzione, un fatto che implica un’infallibile memoria, un’attenzione altissima, da parte del performer che, come un mago, un illusionista, intrattiene gli spettatori parlando un italiano con una pronuncia quasi perfetta, sfogliando pagine e mostrando oggetti che ci fanno scoprire piccole e grandi storie, accompagnate con musiche d’epoca. 

“Avalanche” di Marco D’Agostin

La storia, o meglio, ciò che resta della storia dell’umanità attraversa Avalanche di Marco D’Agostin. In scena D’Agostin e Teresa Silva, due esseri spaesati sullo sfondo di un’ambientazione algida e vuota, un’epoca ultima in cui la parola ricomincerà prima o poi a essere significante e fondativa. Le cinque lingue imbastite dai due performer retrocedono al grado zero della comunicazione, sono inafferrabili fonemi di un’unica partitura fisica e sonora che diventa anche ironica. La comunicazione passa dallo sguardo, inquisitore e fortemente espressivo. Le identità restano mute, i corpi reificati, schizofrenici, in cerca di un disequilibrio, mentre la musica afferma emozioni, ritmi, colori, come in una sinfonia. Dopo Everything is ok e The Olympic Games, la scrittura coreografica di Marco D’Agostin si conferma maestra nel rimasticare l’immaginario contemporaneo andando a ripristinare, come per rifondare il linguaggio stesso, il punto esatto in cui la danza interseca una tensione drammatica non dissimile dal linguaggio teatrale.

E poi, anche quest’anno al Kilowatt Festival non è mancata la programmazione partecipata (di ben 9 spettacoli), grazie alla scelta operata dagli spettatori del gruppo Visionari. Be SpectACTive!, il progetto con capofila l’associazione Kilowatt/CapoTrave, infatti, ha vinto per la seconda volta il bando europeo di cooperazione su larga scala – cofinanziato dal programma Creative Europe della Commissione Europea – che prevede il coinvolgimento degli spettatori nei processi creativi. Proseguirà la sua azione fino al 2022, e quindi anche l’anno prossimo ritroveremo gli active spectators che saranno coinvolti nella programmazione partecipata. Sceglieranno gli spettacoli sulla base delle discussioni e dei confronti all’interno del gruppo. Talvolta, come nell’edizione trascorsa, le decisioni del gruppo potranno convergere verso scelte di gusto personale opinabili, un rischio accettabile e forse necessario, che altre volte, invece, come ci piace ricordare ancora a distanza di un anno, può portare alla scoperta di gruppi molto interessanti, com’è toccato a noi con Teatro Presente e il loro fresco The hard way to understand each other nel 2017. E sono cose, appunto – invertendo il titolo dello spettacolo più sopra citato – che non si dimenticano facilmente.

 

In copertina, Alessandra Crocco in “Come va a pezzi il tempo”. Foto di Luca Del Pia



Una selezione delle notizie, delle recensioni, degli eventi da scenecontemporanee, direttamente sulla tua email. Iscriviti alla newsletter.

Autorizzo il trattamento dei dati personali Iscriviti