Arti Performative Mutaverso Teatro

Un teatro al confine tra poesia, sogno e spiritualità. Intervista a Roberto Latini

Valentina Solinas

Il Premio Ubu 2017 Roberto Latini apre la Stagione 2018 Mutaverso Teatro. In scena, venerdì 19 gennaio alle ore 21 presso l’Auditorium Centro Sociale di Salerno in zona Pastena, il suo Cantico dei Cantici, spettacolo vincitore di due Premi Ubu, per le categorie Miglior attore e Miglior progetto sonoro, di Gianluca Misiti.

Tratto da un antico testo laico che venne attribuito al re Salomone nel X secolo a. C (informazione smentita da ricerche più recenti che lo collocherebbero nel secolo IV a.C.), e tra gli ultimi testi accolti nel canone della Bibbia per la purezza e la trascendenza cui aspirano i versi d’amore tra due indefiniti amanti, il Cantico dei Cantici di Latini scardina a fondo i significati nascosti nelle parole, lavora con le immagini estratte dalla scrittura originale del testo, tenendosi al confine tra interiorità umana ed esteriorità, in una dimensione d’illusione e sogno, paura e tenerezza. Il testo sembra rientrare naturalmente, per la sua forma allegorica, intessuta di miti di origini arcaiche differenti, al concetto poetico di teatro che Latini porta in scena da circa vent’anni: teatro dell’immagine, del suono, del corpo e della voce. Un teatro evocativo e insieme sinestetico, un teatro che arriva alle emozioni al di là di ogni possibile codificazione. ‘Scene Contemporanee’, mediapartner della Stagione, ha incontrato l’artista qualche giorno prima della sua presentazione a Mutaverso Teatro.

 

Con il Cantico dei Cantici apri la Stagione Mutaverso Teatro, questa è la prima volta che vi partecipi?

È la prima volta, quindi questa sarà la più difficile. Sono stato a Salerno un paio di volte, ma non in questa dimensione.

Il Cantico dei Cantici è un testo molto complesso ricco di spunti di riflessione, parla d’amore in tutte le sue forme, tenendosi al confine tra spiritualità e carnalità. Come ti approcci al testo?

Mettendomi accanto. Questa è stata la sensazione dal primo giorno, da quando ho avuto il testo in mano, addirittura dalla traduzione fino alla traduzione scenica del testo. Sentendone la prossimità come certe parole riescono in questo testo ad arrivarti così vicino fino a farti sentire proprio il sapore, i profumi, ad avere quasi la sensazione tattile di certe situazioni. Spero di non darlo frontalmente agli spettatori ma di metterglielo accanto come lo sento anch’io.

C’è una parte del testo che senti particolarmente importante rispetto al resto?

Forse la struttura è la cosa più importante, perché è suddiviso per capitoli o episodi quasi come se fossero dei respiri concatenati, c’è una dinamica interna che è stato un piacere andare a rintracciare… in qualche modo costringe a un ulteriore movimento; però, se dovessi scegliere, direi che più che una parte ci sono dei lampi che ogni tanto arrivano come sono le cose semplici: magari un dettaglio capace di farsi portare oltre il verso, oltre la linea, oltre il capitolo stesso, così come se fosse incontrato. Le parole sono semplici, questa è la potenza di alcune altezze. La semplicità degli occhi che vedono e che scrivono, sono degli occhi interni, sono degli occhi che hanno a che fare con il guardare ma in senso più grande rispetto a ciò che descrivono. C’è tanta immaginazione in questo testo, c’è il desiderio, c’è una spiritualità che in qualche modo si dà appuntamento con la carnalità, oppure l’una e l’altra hanno bisogno di rendersi complici; la sensazione che ho rispetto a questo testo è una sensazione d’intimità e di tenerezza veramente unica, e questa è stata la disposizione con la quale ci siamo approcciati al testo.

“Cantico dei Cantici”, foto di Angelo Maggio

Nel tuo teatro emerge l’immediatezza dell’equilibrio tra corpo, parola, ritmo, e immagine. Pensi che sia questo equilibrio a creare delle sensazioni?

La cosa più importante, che spesso è anche la più difficile, è di non disturbare lo spettacolo, anche perché non è il mio spettacolo, non siamo noi che deteniamo quello spettacolo in teatro, noi attraverso lo spettacolo tentiamo il teatro ma io sono il primo che deve essere ammesso, e come dicevo, questo è l’approccio anche a Cantico dei Cantici. E questo avviene attraverso una sensibilità magari sollecitata, ma è una sensibilità reciproca. La platea ricostruisce più di quello che viene proposto, e questo lo so anche da spettatore.

Spesso hai affermato di percepire il fare teatro come parte di una serata con il pubblico, ad esempio durante un’intervista a cura di Gertrude Cestiè per Scene Contemporanee hai detto: «io la responsabilità che posso prendermi è quella di usare la mia “artisticità” non mandare in scena la mia “artisticità”». Secondo te gli spettatori che percezione hanno dei tuoi spettacoli?

Non c’è davvero uno spettatore tipo, è sempre diverso anche nello stesso posto. Sembra un po’ banale ma è anche questo il bello: io non lo so chi sarà seduto lì di fronte, e spesso non lo sanno neanche loro. A volte capita che ci si sia già incontrati: ci sono degli spettatori che hanno visto altri spettacoli in precedenza; in qualche modo ho avuto dalla platea un riscontro reciproco, non è mai una cosa unilaterale. Io spero sempre che ci sia una disponibilità da parte del pubblico, che ci sia una disponibilità d’incontro e se questo avviene anche nel Cantico dei Cantici potrebbe essere una bella occasione.

In effetti è un discorso complesso quello dello spettatore, ad esempio se si considerasse le differenze di coscienza del teatro…

Sì, ma esistono platee differenti, nel senso che ci sono certamente intere platee di spettatori più ricettivi rispetto ad altre, non so se mi spiego. Sarebbe pericoloso, però, mettersi con questa consapevolezza da un palcoscenico. Ci sono degli spettatori di una purezza e di una capacità di elaborazione unica, si vedono e s’incontrano disponibilità che non concediamo neanche a noi stessi. Ad esempio andare sul palcoscenico da professionista è una cosa che mi ha tolto molto rispetto a quand’ero spettatore, perché, purtroppo, sono uno spettatore un po’ deviato dal fatto che me ne intendo, però allo stesso tempo, quando riesco ad essere travolto dall’incanto di quello che mi avviene davanti lo sento molto più forte. E quando sono sul palco spero sempre che gli spettatori non siano lì a prendere le misure. Cantico dei Cantici ha avuto degli spettatori di una bellezza unica. Questi pochi mesi di repliche hanno restituito cose allo spettacolo veramente bellissime. Io sono quello che le rimette in gioco, che le conserva, ma non sono per me, sono per tutti.

Parlando della tua carriera, hai affrontato l’interpretazione di un solo personaggio solo in occasione di regie esterne, mi vengono in mente l’Antigone di Anouilh per la regia di Maurizio Panici, Il servo di due padroni di Antonio Latella, e il Woyzeck di Federico Tiezzi, mentre spesso nelle tue regie tendi a vestire il ruolo di più personaggi; potresti stabilire una differenza rispetto a queste due possibilità d’espressione?

Diciamo che l’interpretazione di un solo personaggio solitamente si lega a una richiesta, a un accostarmi al lavoro di altri. Per il Woyzeck di Tiezzi si trattava di uno spettacolo a conclusione di un laboratorio e io ero entrato a sostituire uno degli studenti, mentre nel caso dell’Antigone di Panici è stata una richiesta che mi era stata fatta da tempo. Ho mantenuto una promessa. In questi casi il mio approccio è sempre molto didattico, nel senso che cerco di imparare il più possibile dall’esperienza con gli altri e dall’approccio di un attore con la sua parte. Nel caso del lavoro con Latella è stato diverso, perché mi ha lasciato davvero molto spazio, avevo carta bianca per potermi esprimere, è stato un lavoro di creazione. Nelle mie regie, con Fortebraccio, come dico sempre, lo stare solo in scena è una condizione dettata dall’impossibilità di far lavorare altre persone dignitosamente. Non si tratta di una scelta voluta, anche perché io non lavoro mai da solo anche quando sono il solo interprete; ho bisogno sempre di un occhio esterno che presenzia a guardare il mio lavoro e a costruire lo spettacolo con me. Infatti ci sono sempre Max Mugnai e Gianluca Misiti a osservare gli effetti come dalla platea.

Con Fortebraccio Teatro hai avuto anche molte esperienze di direzione di altri attori, penso a Nnord, Metamorfosi, l’Ubu Roi , cosa senti di trasmettere ai tuoi interpreti e cosa ne ricevi?

Quando scelgo di collaborare con altri attori non si tratta mai di una scelta casuale degli interpreti, di solito conosco molto bene gli attori con cui collaboro e la creazione si sviluppa nel lavoro d’insieme. Nel caso di Nnord il gruppo di lavoro si è formato negli anni di conoscenza e tutti i passaggi sono nati dalla spontaneità degli interpreti verso le scene, così come in Metamorfosi e nell’Ubu Roi. Io non potrei mai chiamare un gruppo di esecutori per fare uno spettacolo, ci deve essere sempre un incontro da cui nasce un’esperienza, un confronto.

Cosa ti porti dietro nel tuo lavoro dalla formazione con Perla Peragallo e quanto ti consideri evoluto dall’anno del tuo diploma?

Mi capita spesso di pensare al lavoro con Perla e spesso mi domando cosa penserebbe dei miei spettacoli se potesse vederli. Lei ha potuto vedere solo tre dei miei lavori, dei quali il primo era nel 1994. Fondamentalmente credo che sia presente nel mio lavoro. Quello che ho imparato me lo porto dietro, ma quando penso alla mia formazione mi rendo conto che la cosa più importante che mi ha insegnato Perla non è stata un metodo di fare teatro, ma una forma di comunicazione al di là del tempo.

 

 



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