Arti Performative

Saverio La Ruina // La Borto

Giovanna Villella

In scena al Teatro Grandinetti di Lamezia Terme, lo scorso 5 aprile, lo spettacolo “La Borto”, scritto, diretto e interpretato da Saverio La Ruina che, nel 2010, riceve la nomination come “Miglior attore” al Premio UBU, mentre lo spettacolo risulta vincitore, nello stesso anno, del Premio UBU come “Miglior nuovo testo italiano” e del Premio Hystrio alla Drammaturgia. La produzione Scena Verticale è inserita nella III edizione della rassegna Calabria Teatro con la direzione artistica di Diego Ruiz e Nicola Morelli, cofinanziamento Bando Distribuzione teatrale triennio 2022/2024 – PSC Calabria e Legge Regionale n. 19/2027, realizzato dall’Associazione teatrale “I Vacantusi” di Lamezia Terme.

Creature subumane, marginali, periferiche le donne di Saverio La Ruina. Donne che appartengono a una Calabria rurale, costruite su un immaginario radicato in una cultura popolare e orale. Spesso analfabete o poco istruite, remissive e destinate al ruolo di mogli e di madri, eppure dotate di una intelligenza pragmatica che consente loro di sopravvivere, con tutta la loro innocenza, all’inferno domestico. Come Vittoria a Sciolla che, a tredici anni e mezzo, viene data in sposa – dal suo patrigno – a un uomo vecchio, brutto e sciancato. Una storia dolorosa e lacrimevole che Vittoria racconta, come in sogno, a Gesù e ai suoi apostoli. E la sua storia, a distanza di tempo, appare come un estremo atto di resistenza. In quel suo dire fitto si avverte, disperato, il tentativo di salvarsi, di fuggire da una colpa che non sente sua, per dare una parvenza di senso a una vita senza amore, che non ha scelto di vivere. Eppure Vittoria, nel suo candore, è una tragica diversa. Ella si beffa del tragico senza rompere le regole del gioco laddove lo slittamento nella sfera onirica corrode la dimensione patetica del personaggio, facendo emergere tutti i segni e le coloriture empatiche del conflitto drammatico, alleggerito da momenti di sottile umorismo.  Le intermittenze della coscienza ci narrano di un’adolescenza negata – «A voti mi veni menti n’estate, i quannu avìu ancora tridici anni, i quannu amu juti a lu maru cu mamma» – di sogni infranti, di matrimoni combinati, di violenze domestiche, di figli nati come conigli – «Ji, per esempiu, a vintott’anni avìu fattu già setti figghi” – e di aborti procurati da mammàne senza scrupoli. La fine della fanciullezza di Vittoria coincide con l’arrivo della pubertà e con il divieto di giocare con i ragazzi ma, soprattutto, la si legge nel coro degli sguardi lascivi dei maschi seduti davanti ai bar, che per Vittoria diventano stazioni di una Via Crucis – «U fastidiu c’avìasi, a pagura chi ti mittìanu, a vrigogna chi ti mangiavi…». Essi fanno, metaforicamente, a pezzi le donne identificandole con parti del corpo che escludono il viso, le braccia, le mani e i piedi«Facìanu a radiografia e pu si passavinu i lastri. E supa i lastri c’erinu addù i gammi, addù i spaddi, addù u pìattu e addù u culu». È il corpo della donna reificato, ridotto a puro oggetto carnale da una visione androcentrica dominata da una cultura patriarcale. Il mondo che La Ruina racconta non è delle donne né per le donne, ridotte a macchine di procreazione. “Arrangiti” rispondevano gli uomini alla notizia dell’ennesima gravidanza. E così, in questo universo declinato al maschile, ci sono sacche di resistenza che le donne sanno sfruttare per sopravvivere, creando una rete di sorellanza con chi condivide la medesima sorte. Dopo aver pregato invano santi e madonne, lavorato per notti intere al telaio a confezionare corredi, chi voleva interrompere una gravidanza ricorreva alle mammàne. Figure conturbanti e ambigue che, pur delegate a presiedere al mistero della nascita facendo venire al mondo le creature, qui sono tratteggiate come anime nere con una vita condotta al margine, tra il rispetto popolare e la clandestinità imposta dalla legge e dalla morale religiosa. Depositarie di saperi tramandati oralmente, conoscevano i rimedi erboristici, le tecniche fisiche e le pratiche popolari per indurre un aborto. Operavano in condizioni precarie, in ambienti non sterili e con strumenti rudimentali – «Ci nziccavinu fìarri, sondi, gommini, ci nziccavinu tuttu quiddu chi ci trasìa. Cu murìa di tetanu, cu di prizzemulu, cu si vivìa a cìnnira nda l’acqua vuddènta e cu si ci nziccàvi nda l’acqua vuddènta», mettendo a rischio la vita delle donne che spesso vivevano la maternità come un destino obbligato. E anche quando la storia si ripete, in un periodo e in un contesto che consente l’accesso al servizio sanitario pubblico, nella civile e moderna Milano, non manca lo sguardo di biasimo, lo stigma sociale, la criminalizzazione verso chi ha deciso di autodeterminarsi, a riprova che certi pregiudizi non sono monopolio della subcultura di un Sud sudicio, isolato, depauperato che vive ripiegato nel suo complesso di colpa e di minorità.

La scelta di La Ruina è quella di interpretare figure femminili senza l’eccesso teatralizzato o l’isteria del travestimento. Le sue donne sono radicalmente sottratte a ogni accentuazione caricaturale e rese compiute dal ricorso a elementi-segno quali una modesta camiciola di lanetta bianca, con un ricamo discreto sullo scollo a V come unica nota civettuola, a sembiante del modello evocato. Il corpo diventa, così, pura energia e tensione espressiva che si tramuta in una partitura quasi musicale di gesti e di intenzioni psicologiche: qualche svolazzo delle mani che poi si uniscono come in preghiera, quel vezzo – tutto femminile – di rassettarsi l’orlo della gonna, la prodigiosa capacità di mutare espressione convivendo, a proprio agio, su quella delicata linea di confine tra ironia e tormento, astrazione e verità.

Il teatro di La Ruina ha una forte carica etica e antropologica. I suoi temi, lungi dal trasformarsi in copia edulcorata di conflitti psicologicamente riconoscibili, liberano immagini, nominano le cose, identificano i fantasmi. La parola è turbata e come attraversata da una erosione sottile e dolorosa mentre il pensiero tenta di afferrare l’insondabilità della vita stessa. La scena, avvolta da volumi di buio e attraversata dalle scie sonore eseguite dal vivo da Gianfranco De Franco, che siede di spalle al pubblico, non è un luogo rassicurante e protettivo, veicolo di messaggi che contribuiscono a rinsaldare la fiducia in un mondo stabile e definito, dove le certezze della ragione ignorano ogni mutamento. Qui, “rappresentare” significa “tradire” nel senso etimologico del termine ovvero tradĕre, consegnare. Consegnare storie che meritano memoria.

 



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