Roberto Capasso // “Don Felice Sciosciammocca creduto guaglione e n’anno”
A Napoli di Felice Sciosciammocca non si riesce proprio a fare a meno. La «maschera senza maschera» – secondo l’efficace definizione di Tiziana Paladini (Scarpetta in giacca e cravatta, Luca Torre editore, 2000) – che tra Ottocento e Novecento conobbe enorme successo declinando in senso comico i tratti caratteristici della nascente borghesia napoletana continua ad essere protagonista di rivisitazioni del teatro scarpettiano, da Miseria e nobiltà di Luciano Melchionna a ʼNa Santarella di Claudio Di Palma. Del resto una certa tradizione è ancora ben radicata nel tessuto culturale della città, rappresentando un momento di confronto pressoché inevitabile per chi qui fa teatro. E così, per il terzo anno consecutivo Roberto Capasso – recentemente nominato docente di recitazione della Scuola dello Stabile di Napoli – torna in scena con Don Felice Sciosciammocca creduto guaglione e n’anno di Antonio Petito (al Teatro Piccolo Bellini fino al 19 gennaio). Spettacolo di cui firma anche adattamento e regia. Ad accompagnarlo un gruppo di attori composto da Nello Provenzano, Miriam Della Corte e Valentina Martiniello. E non è un caso che il lavoro di Capasso, nato nel 2022 al Teatro TRAM, arrivi sempre a cavallo – o quasi – delle feste natalizie: quale periodo migliore infatti per rinverdire il rapporto con la tradizione? Tanto più che in questa farsa del 1871 Sciosciammocca tenta di conquistare la figlia maggiore di un Pulcinella ciabattino e geloso della sua fanciulla, vedovo e padre anche di un pargoletto di un anno.
La maschera simbolo per eccellenza del popolo napoletano dunque – che ebbe in Petito l’ultimo grande interprete – , contro il tipo borghese che Petito confezionò quale spalla di Pulcinella un po’ a misura, come accadeva allora, di un giovane attore della sua compagnia: Eduardo Scarpetta. La sfida fu vinta da Scarpetta che, dopo la morte del capocomico, assecondando la mutazione antropologica della Napoli post-Unita’ d’ Italia mise a riposo Pulcinella e reinventò completamente Sciosciammocca, che divenne il protagonista assoluto delle sue nuove commedie. Proprio su questo agone Capasso ha costruito una messa in scena in cui Pulcinella e Don Felice lottano fino alla fine per la sopravvivenza a suon di schiaffi, sgambetti e battute. Nella prima parte, muta ma con inserimenti di antiche nenie cantate delicatamente da Valentina Martiniello (la balia Donna Peppa) e Miriam Della Corte (Rita, la figlia di Pulcinella), le due attrici srotolano i due celebri personaggi da teli che li avvolgono, mentre giacciono come dormienti sul palco, e li vestono dei loro abiti per cominciare lo spettacolo. Che tra il mimo, il clownesco e “lazzi” da commedia dell’arte da vita a un’interessante combinazione di teatro performativo e di ricerca e repertorio farsesco, dove gli attori sono burattini viventi che esplorano le capacità narrative dei corpi diventando ingranaggi di un fantasioso meccanismo di movimenti, suoni, musiche e rumori di cui è parte l’essenziale scenografia (elaborata da Giorgia Lauro).
Un singolare esperimento dunque, che sorregge l’esile impianto di ingenue tresche amorose, di battute sulla fame e la miseria e di contrasti tra il Pulcinella di Nello Provenzano e il Don Felice di Capasso, modellati con attenzione filologica ad alcuni caratteri propri del teatro petitiano: il primo, quasi in transizione da maschera a personaggio, non è più lo sciocco contadino acerrano della commedia dell’arte ma uno scarparo inurbato e dalla personalità indurita, e sul classico camicione bianco porta berretto e grembiule da calzolaio (i costumi sono di Sara Portolano); il secondo ha movenze da mamo dal volto incipriato, è goffo e viziato, veste da borghesuccio squattrinato con tuba e bastoncino ed è autore e vittima allo stesso tempo di innocenti imbrogli. Fino al travestimento in guaglione e n’anno, gioco che suscita sempre genuine risate; risate che però sono mancate in altri momenti dello spettacolo, forse perché il testo risente un po’ del peso degli anni e la costruzione registica è tale da non lasciar liberare appieno spontaneità e improvvisazione, ingredienti necessari per innescare il riso in una farsa. Ma la bravura degli interpreti e l’originalità dell’operazione permettono comunque di apprezzare questo omaggio alla tradizione, da gustare con animo leggero nell’intimo salottino del Piccolo Bellini. E colpiscono alcune immagini metaforiche scelte da Capasso nella prima parte, che sono un po’ la chiave di lettura del suo lavoro: Sciosciammocca seminudo che viene quasi “partorito” sulla scena, mentre il telo in cui è avvolto Pulcinella sprigiona nuvole di polvere. È l’avanzare del nuovo sul vecchio nel naturale ciclo della vita. Che vale anche a teatro.
[Immagine di copertina: foto Amanda Marie Annucci]