Intervista a Leonardo Manzan, in tournée con “Faust”
Martedì 11 e mercoledì 12 febbraio, Faust, il nuovo spettacolo di Leonardo Manzan (classe ’92) sbarca in Svizzera, al LAC – Lugano Arte e Cultura, che è tra i co-produttori del lavoro insieme al romano Teatro Vascello – La Fabbrica dell’Attore (dove ha debuttato il 10 dicembre restando in cartellone quasi due settimane) e a Teatro Piemonte Europa (presso cui sarà in scena, al Teatro Astra a Torino, dal 25 febbraio al 2 marzo), in collaborazione con Teatro della Toscana Teatro Nazionale. Dopo Cirano deve morire, il giovane autore e regista nato a Roma e formatosi alla Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano, due volte vincitore alla Biennale Teatro di Venezia, firma testo e regia insieme a Rocco Placidi di Faust, tratto da Faust (I e II) di J.W. Goethe e in cui uno dei capisaldi della letteratura teatrale europea viene decostruito per affrontare tematiche come la rappresentabilità del male, i vizi del teatro italiano e il ruolo dell’artista nella società.
Sulla scena realizzata da Giuseppe Stellato, un tradizionale sipario rosso è situato non davanti ma alle spalle degli attori, i quali siedono dietro una larga postazione bianca simile a un tavolo per conferenze, dotata di microfoni e formata da schermi luminosi che si colorano all’occorrenza. Una stampante Wi-Fi sospesa partorisce e fa svolazzare dall’alto pagine dell’opera di Goethe a cadenza costante. Ma c’è poco da fare i seri, i primi minuti accumulano episodi goliardici del gruppo affiatato di giovani attori – Alessandro Bandini, Alessandro Bay Rossi, Chiara Ferrara, Paola Giannini, Jozef Gjura, Beatrice Verzotti –, una vera e propria gara a chi è più al centro dell’attenzione. Così doveva sentirsi il superbo e frustrato Faust (Alessandro Bay Rossi), che assurge a simbolo di uomo bianco, potente, libidinoso e molesto, tentato da una tellurica ed esplosiva versione femminile di Mefistofele (Paola Giannini).
Veniamo, però, alla genesi del lavoro con Leonardo Manzan.

Foto di Manuela Giusto
Perché hai deciso di lavorare, nella maniera naturalmente che ti è più incline, cioè quella di disfacimento, per dirla con Carmelo Bene, di decostruzione, proprio al Faust di Goethe?
Su questa scelta del Faust, se devo essere proprio sincero, abbiamo cercato di riflettere molto a un certo punto del lavoro, cioè durante quella fase necessaria in cui si arriva a non riuscire più a capire dove mettere le mani! In quel momento ci siamo chiesti proprio che cosa c’era nel Faust che all’inizio del percorso ci interessava, abbiamo provato a risalire all’origine e non ce l’abbiamo fatta. È accaduto che strada facendo avevo smarrito la ragione per cui avevamo scelto di lavorare sul Faust. Ricordo che avevo un interesse fortissimo a ragionare intorno al diavolo e alla sua possibilità di essere rappresentato. Rispetto però alla scelta a monte di fare il Faust, se non fosse che per questo “link” del diavolo, non saprei rispondere adesso. Devo ammettere però che questa cosa mi piace anche, perché è il primo lavoro che mi ha permesso di sentire più volte questo senso di smarrimento, vuoi per la forma e per la complessità dell’opera e vuoi, forse, anche perché mi sono fidato un po’ di più dei collaboratori, ho iniziato a delegare e quindi, me ne rendo conto, lo spettacolo è venuto costruendosi senza quell’esercizio di controllo che solitamente faccio (perché in genere sono un maniaco del controllo!). Faust mi è sfuggito dalle mani e questa cosa per la prima volta mi è piaciuta. Per risponderti, lo stimolo iniziale era sicuramente, quindi, la figura del diavolo, dopodiché c’è stato il desiderio di ritornare a lavorare su un testo preesistente, dopo Glory Wall e Uno spettacolo di Leonardo Manzan in cui la drammaturgia è originale. Chiaramente, questo nostro modo di confrontarci con un’opera preesistente non poteva che prevedere una rielaborazione quasi totale.

Foto di Manuela Giusto
Parliamo proprio di questo, della drammaturgia e della regia. In questo spettacolo non c’è un filo unico che avete seguito tu e Rocco Placidi nella direzione, ma una vera e propria matassa che avete cercato di dipanare. Corretto?
Il Faust è così, è veramente difficile trovare un’unità, perché non c’è né stilisticamente, perché si passa da un linguaggio a un altro di scena in scena, né per quanto riguarda l’evoluzione narrativa, la trama. Rappresenta in pratica la storia di un viaggio, per cui, date le premesse che sono semplici e raccontabili in pochissimo tempo e occupano il primo decimo dell’opera, il testo è a episodi, a quadri, tante volte slegati tra di loro, disconnessi, anche a volte contraddittori, anacronistici. Tentare perciò di dare un’unità a questo lavoro è quasi impossibile. Abbiamo però provato ad assegnare allo spettacolo un’unità a livello scenico, di rappresentazione: il tavolo di una conferenza ci sarà dall’inizio fino alla fine.
Voglio allacciarmi a Uno spettacolo di Leonardo Manzan. Sembra per te quasi un’ossessione questo doverti occupare, a un certo punto – citandolo, prendendolo in giro – dello stato attuale del nostro malato sistema teatrale, con il rischio di inciampare nell’autoreferenzialità. Mentre nel precedente spettacolo ti rivolgevi a una ristretta cerchia di persone, con Faust hai costruito una scena per me memorabile e ad alta accessibilità, in cui gli attori per un attimo nei panni di generici direttori artistici si scambiano carte francesi come idee e spettacoli teatrali per ritrovarsi alla fine tutti con lo stesso, identico cartellone. Percepisci anche tu questa differenza nella restituzione della stessa tematica?
Quella degli addetti ai lavori in Uno spettacolo di Leonardo Manzan a dire il vero è una scena che nel corso delle repliche ho mutato notevolmente. Ho provato a renderla più accessibile, anche se quello era lo spettacolo “autoreferenziale” per definizione. Di sicuro è un mio desiderio, il parlare col teatro, del teatro in un teatro. Nel momento in cui lo si fa attraversando un testo è sicuramente più semplice trasmutare questo tema in un elemento di fantasia come è stata la scena dei direttori di teatro in Faust. In Uno spettacolo di Leonardo Manzan l’attacco era più diretto e specifico. Ti sorprenderò, però, perché Uno spettacolo di Leonardo Manzan, in previsione del Faust che sarebbe stato comunque uno spettacolo grosso come Glory Wall e Cirano deve morire – spettacoli che comunque hanno girato tanto e girano ancora – per evitare di farci concorrenza da soli, abbiamo pensato di fare uno spettacolo più piccolo che potesse calcare palcoscenici e spazi diversi. Era già nato come spettacolo “minore”, con tutte le virgolette del caso, eppure, con grande stupore, per il pubblico generico, cioè non di addetti ai lavori, è stato lo spettacolo più convincente.
“Maurizio”, questa sorta di assistente, stagista, capro espiatorio, volontario proveniente dalla platea, è un elemento che ho apprezzato. La sera del debutto si è lanciata, e in pochissimo tempo, una giovane che era talmente calzante da farmi pensare che il suo coinvolgimento in scena fosse un qualcosa di programmato a tavolino poco prima dello spettacolo.
Sono rimasto piuttosto sorpreso anche io, e no, non era assolutamente programmato. L’interazione con il pubblico nei nostri spettacoli è sempre presente. Questo gioco che proponiamo, dello spettatore che rimane dall’inizio alla fine con noi sul palcoscenico, ci sembrava qui più difficile da esaudire, eppure nelle repliche che abbiamo fatto finora si propongono sempre molto velocemente. Abbiamo una intera scena scritta per stimolare il pubblico a venire ma non ce la fanno mai realizzare perché già alle prime due richieste di salire sul palcoscenico qualcuno già si è proposto, è una reazione che sorprende anche noi.
[Immagine di copertina: foto di Manuela Giusto]