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“Work”: un’attrice e un robot dentro un teatro situazionista. Intervista a Carlo Galati di Scena Mobile

Renata Savo

Robot“. Una volta sembravano solo i protagonisti di un romanzo o un film di fantascienza: oggi cominciamo a immaginare come un qualcosa di assolutamente raggiungibile uno stile di vita in cui i robot facciano parte della nostra quotidianità e non potremmo più farne a meno. Come il computer, come i cellulari, come internet, come i social network. Una vita più comoda, più veloce, più sicura anche (forse). Le intelligenze artificiali sono entrate nelle nostre case, attraverso i nostri smartphone, le Siri, le Alexa. Per rispondere alle nostre domande, alle nostre curiosità. Per giocare con noi, scrivere per noi, preoccuparsi per noi. Ma non solo. E se fossero presenze spiritose, burlone, se apparissero empatiche nei nostri confronti? Quale sarebbe la nostra reazione? Di stupore, di fastidio, di inquietudine? Il teatro potrebbe diventare sempre di più il terreno di indagine in cui mettere alla prova le relazioni tra i comportamenti dell’essere umano e quelli della macchina, proprio come se la macchina fosse un altro attore, o meglio, un attore altro. In effetti, già lo ha fatto: esiste una metodologia, definita Theatre Human-Robot Interaction, che lavora sia sul campo del dialogo verbale sia del non-verbale e che viene adottata per svolgere indagini sugli utenti di queste macchine intelligenti che chiamiamo robot (per approfondire: A. R. Chatley, K. Dautenhahn, M. L. Walters, D. S. Syrdal, B. Christianson 2010). In qualche modo, tra gli interessi di alcuni artisti performativi, rientra proprio il dischiudere quel potenziale racchiuso tra i due corpi, quello umano e quello meccanico o elettronico. A Napoli, mosso da curiosità, ha tentato l’esperimento Carlo Galati, regista e direttore artistico della Cooperativa Scena Mobile, che nella Sala Italia di Castel dell’Ovo ha presentato Work. Il 6 e il 7 luglio è andato in scena, infatti, un inedito confronto tra l’uomo e la tecnologia, con protagonisti l’attrice Valentina Fusaro e il robot industriale Kuka Iontec 20 3100, modello impiegato in grandi catene di produzione, tra cui quella della fabbrica Mercedes di Stoccarda.
«La storia è ambientata in fabbrica – si legge nella nota che accompagna lo spettacolo – dove l’operaia Elisa, che lavora fianco a fianco con un braccio meccanico, riesce casualmente a capire come comandarlo, introducendo variabili inaspettate nella sua routine lavorativa. Azioni comiche, grottesche, drammatiche e ironiche prendono vita dall’interazione tra la donna e il robot, evidenziandone il rapporto di collaborazione e di sfida che si crea di volta in volta, e mostrando, nella loro concretezza, i conflitti tra uomo e macchina, tecnologia e manualità, progresso e tradizione».
Il progetto, ancora in fieri, è stato concepito per essere portato in scena in luoghi non convenzionali, non ultime le fabbriche e sedi industriali. Abbiamo chiesto a Carlo Galati di spiegarci meglio in che cosa consiste questo lavoro.

Carlo Galati, ideatore e regista di “Work”

Il robot industriale Kuka Iontec 20 3100 viene definito una sorta di “braccio meccanico”. Chi comanda la macchina e qual è la funzione drammaturgica che viene ricoperta in questa relazione con l’attrice-operaia Valentina Fusaro? 

Esiste un vissuto quotidiano di milioni di persone che passano buona parte della propria giornata lavorativa fianco a fianco con un robot. Lo spettacolo non si limita a descrivere questo quotidiano, ma lo ricostruisce in scena con dinamiche uguali alla vita reale. Quella rappresentata però è una giornata particolare, l’operaia trova il pad di comando del robot e da serva diventa padrona. È l’occasione per svelare la vera anima dell’operaia e per costruire un rapporto di confidenza e intimità tra macchina e uomo. Il tema  dell’automazione del sistema produttivo con l’uso del robot è al centro di discussioni sociali ed economiche. Questo spettacolo è l’occasione di vedere da vicino il braccio meccanico all’opera, in un sistema produttivo replicato come se fosse in fabbrica. “Che bello!”, “fa paura”, “che bel colore”, “è pericoloso”, “quanto pesa?”. Queste le reazioni di chi l’ha visto in azione durante le prove, confinate alla parte iniziale dello spettacolo. Con il procedere dell’opera, lo spettatore non si lascia più distrarre dalla presenza estetica e ingombrante del robot, ma si fa coinvolgere dalla narrazione, vivendo un’esperienza che gli permette di avere piena consapevolezza di cosa sia un robot e di partecipare al dibattito sull’automazione in modo più critico e consapevole.

La parola “robot” deriva proprio da un testo teatrale,  R.U.R. (I robot universali di Rossum) di Karel Čapek e la funzione di questi robot era proprio legata al lavoro, robota era la parola ceca per designare il lavoro faticoso. Che cosa l’ha spinto a ideare una performance in cui mettere in scena la relazione uomo-macchina? Quali sono state le fonti di ispirazione?

Non posso negare che una motivazione importante sia stato il puro divertimento. Avere a disposizione questo servo muto, ubbidiente e instancabile che replica all’infinito le azioni da me scelte ha un valore ludico notevole. E questo mio divertimento l’ho trasmesso all’operaia protagonista dello spettacolo. Quando Elisa trova il pad per programmarlo, pensa immediatamente a istruirlo per danzare, spazzare, giocare, sperimentando nuove funzioni. La mia scelta è stata quella di proporre un teatro di situazione. Nel mio spettacolo si racconta poco, le considerazioni sono ridotte al minimo. C’è una macchina e un’operaia e mostriamo ciò che succede. Si arriva al dunque senza perdere tempo in  preamboli. In Work, dopo cinque minuti, l’operaia comanda il robot e inizia  a divertirsi facendo divertire il pubblico. Lo spettacolo è zeppo di riferimenti classici che non svelo, per non privare il pubblico del piacere della scoperta. Il robot dello spettacolo non ha un’anima, ma è semplicemente l’espressione di un progetto industriale. Il vero protagonista non è il robot, ma chi l’ha comprato. O forse i numeri inesorabili che raccontano l’indiscutibile convenienza del suo acquisto. La vita media del robot usato nel nostro spettacolo è di quattrocentomila ore di lavoro. Ovvero può lavorare quarantacinque anni di seguito per ventiquattro ore al giorno. Al pubblico viene mostrata un’esperienza di una giornata di lavoro molto particolare.

Quali sono state le fasi del processo creativo? C’è stata la possibilità di confrontarsi con tecnici o altri tipi di figure, diverse da quelle professionali del mondo artistico e performativo? Se sì, quali in particolare?

Quando si vanno a esplorare linguaggi nuovi che utilizzano macchine inedite per l’uso artistico, il gruppo di professionisti coinvolti diventa più vasto e variegato. Cambia la modalità dell’uso della macchina dedicata. Il robot da noi scelto, una volta programmato per funzionare in fabbrica, ha bisogno solo di un interruttore di accensione e spegnimento, poi parte senza interruzione per replicare i suoi movimenti all’infinito. Nel nostro spettacolo i movimenti sono milletrecento, raggruppati in trenta azioni che vanno attivate in determinati punti della commedia. Alla base del nostro progetto ci sono ingegneri meccanici e informatici grazie ai quali abbiamo esplorato un mondo nuovo come quello industriale, che, secondo il mio parere, non è poi così diverso dal mondo artistico. Anche nell’ambito delle arti tutto deve funzionare: progetto, produzione, messa in opera,  distribuzione. Se uno di questi meccanismi si inceppa, il progetto non si realizza. Nella contaminazione di esperienze, gli ingegneri hanno provato il piacere della creatività e gli artisti hanno seguito un approccio sistemico ai problemi. Io stesso ho imparato a utilizzare il pad per muovere il robot, conosco le caratteristiche e le problematiche dei vari modelli, i suoi limiti operativi.

Attorno alla robotica ruotano diverse posizioni contrastanti, anche estreme e radicali: tra queste, c’è chi teme un futuro in cui i robot saranno in grado di assumere un potere illimitato anche sugli esseri umani e chi, dall’altro lato, professa una fiducia indefessa nella tecnologia e nei suoi innesti nella struttura biologica del corpo (è la posizione del movimento mondiale transumanista). Quale messaggio vorrebbe veicolare attraverso la sua performance? Qual è la Sua posizione rispetto all’utilizzo delle nuove tecnologie? 

Io amo la tecnologia, rende facile il complicato, velocizza apprendimenti altrimenti laboriosi e impegnativi, rende accessibile economicamente strumenti alla portata di pochi. Uno dei brani musicali dello spettacolo è stato composto da me con un programma gratuito del tablet. Mi metteva a disposizione un violino virtuale e pizzicando e riascoltando in modo ripetuto, sono arrivato alla composizione e registrazione del brano. Senza aver mai aver suonato qualcosa prima. È chiaro che il brano l’ho pensato io e non il tablet, ma la facilità d’uso dello strumento mi ha permesso di raggiungere il risultato. Con un violino reale non ci sarei riuscito. I robot impazziranno e distruggeranno l’umanità? È da vedere, anzi, le future generazioni vedranno. La forza dell’operaia sta nell’essere una persona divergente, che anche in fabbrica cerca spazi di libertà e usa il robot per “divergere”. Oggi il vero pericolo sta nella ripetitività dei comportamenti umani, nell’omologazione, nella prevedibilità del nostro pensiero, nella meccanizzazione delle nostre azioni. Nel futuro avremo diagnosi mediche sempre più precise, guerre più distruttive, mezzi di trasporto più veloci, ladri più abili, ologrammi che ricostruiranno il set di un film, fabbriche con soli robot, gestite da altri robot e spettacoli dove tutto sarà possibile. E accadrà a prescindere dalla nostra volontà. Ma se salviamo il pensiero critico, tutto sarà gestito a nostro beneficio.

E tra quanto prevede – se la prevede – una “rivoluzione copernicana” in cui uomini e macchine potranno convivere armoniosamente (in soccorso agli esseri umani nelle faccende quotidiane, nell’assistenza a bambini e anziani, nella medicina…)? 

In realtà è già così. Tendenzialmente rifiutiamo qualsiasi novità per il timore che il cambiamento ci porti via il benessere acquisito  o per la paura atavica del “non identificabile”, un  tempo portatore di danno e morte. Se si inizia l’esperienza con la nuova macchina,  l’abitudine riesce a far apprezzare ciò che prima era estraneo al nostro quotidiano. Purtroppo oggi utilizziamo solo una piccola parte della tecnologia a disposizione. Il problema è culturale, occorre un mediatore che renda facile l’apprendimento e l’uso della tecnologia. Se una persona anziana rifiuta di prelevare i soldi dal bancomat, è perché ha paura che la macchina possa sbagliare l’erogazione dei soldi, paura di non essere capace di ricordarsi il codice, di seguire passo passo le istruzioni. Invece, se un mediatore lo segue nelle operazioni tutto cambia. In fondo basterebbe una voce che riconoscesse quella persona e iniziasse con “Ciao, *******, come stai?”. Rotto il ghiaccio, si farebbe guidare. Ancora più intenso il rapporto con la macchina che aiuta a respirare, a muoversi, a parlare. Il rapporto diventa viscerale e addirittura di gratitudine nei riguardi dello strumento. Anche la nostra attrice con il susseguirsi delle prove ha acquisito sempre maggiore confidenza e intimità con il robot, tutto a vantaggio della performance. 

 

[Immagine di copertina: Valentina Fusaro]



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