Arti Performative

Vito Mancusi // Le Muse Orfane

Maria Antonietta Trincucci

Gli allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma diretti da Vito Mancusi portano in scena le vicende dolorose di quattro fratelli tratte dal dramma moderno di Michel Marc Bouchard 


 

Come si calcolano le conseguenze di una perdita? Quanto di ciò sfugge alle logiche della genetica si tramanda nella carne dei propri figli? La risposta potrebbe trovarsi nel bel dramma di Michel Marc Bouchard Le Muse Orfane, andato in scena al Centrale Preneste Teatro.

La vita, le vicende complicate e dolorose di quattro fratelli sono raccontate in quest’opera contemporanea che mescola aspetti intimi dell’animo umano, legati a dinamiche personali e sociali, alla corrispondente relazione con “l’altro”, inteso, anche più estesamente, come comunità. 

Come si reagisce a una grave perdita? Quanto influisce sul nostro diventare adulti la presenza o l’assenza di alcune figure? Cathérine, Luc, Martine e Isabelle Tanguay si ritrovano, tutti insieme, nella vecchia casa della loro infanzia. Sono trascorsi vent’anni, ognuno di loro ha imboccato un cammino diverso. La sorella maggiore e la più piccola, Cathérine e Isabelle, sono rimaste a vivere insieme nella casa paterna, il fratello Luc si dedica alla scrittura e vive a Montréal, Martine si è trasferita in Europa e ha intrapreso la carriera militare. Ciascuno vive nella propria apparente solitudine, nel tentativo di sfuggire al legame di sangue, che soffoca ed è necessario allo stesso tempo.

L’unica cosa che realmente li accomuna è la loro condizione di orfani. La madre, molti anni prima, li ha abbandonati per seguire un uomo, uno straniero di cui si era perdutamente invaghita. Da allora poche e confuse notizie. Vive in Spagna, da qualche parte, in un’assolata piazza iberica e forse, chissà, indossa ampie gonne e suona come una dea melodie gitane. Solo per la più piccola, Isabelle, la madre è defunta, una menzogna raccontatale, per difenderla, preservarla, allontanarla dal dolore che tanta indifferenza ed egoismo potrebbe generare.

Da sfondo, un piccolo villaggio del Quebec, Saint Ludger de Milo, comunità chiusa e conservatrice, che giudica, che ammonisce, popolata da “gente uguale che fa tutto uguale” che vive la diversità e la libertà come un affronto. C’è chi di loro si conforma, chi si ribella, chi fugge, chi vive l’isolamento sentendosi eternamente inadeguato.

Quest’atto unico ripropone, in un’interessante lettura moderna, le conseguenze di quella che i Greci chiamavano nemesi storica, le colpe dei padri che ricadono ineluttabilmente sui figli e ci mostra i tentativi grotteschi, schietti e amari di cancellare o di rivivere un ricordo doloroso, la nostalgia patologica di qualcosa che non si è vissuto, il perdono, la rabbia e le aspettative tradite di una famiglia che cerca disperatamente il suo equilibrio e si perde e si ritrova con riluttanza e sconfinata necessità di amore.  

La regia di Vito Mancusi si appoggia sulla narrazione con scelte discrete e non invasive, ricreando un clima quotidiano ma allo stesso tempo fuori dall’ordinario, che fa pensare alle atmosfere di un film di Almodóvar. Probabilmente qualche scelta più dinamica, più coraggiosa, avrebbe giovato alla messa in scena. Questo non significa che lo spettacolo abbia lacune vistose ma piuttosto che soffra di una condizione simile a quella della crisalide, che ancora non raggiunge il suo ultimo stadio, pur essendo destinata a evolversi. Discorso simile riguarda le musiche, eseguite dal vivo: interessante l’intuizione di ripetere uno stesso riff di chitarra, quasi ossessivamente, tanto da renderlo il leitmotiv della storia, ma pericolosa la scelta dei momenti narrativi da accompagnare, quasi tanto da far preannunciare allo spettatore i punti salienti dell’opera.  

La rivelazione è tutta nei quattro giovani interpreti (Marta Bulgherini, Agustina Risotto Interlandi, Marina Savino, Nicolas Zappa), freschi di diploma del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Inutile e forse inopportuno sarebbe enumerare pregi e virtù di questi nuovi, ma già validi attori, forse più importante è cercare di trasmettere la piacevole sensazione di stupore che si avverte vedendoli all’opera. Ciò che più impressiona è stata la capacità di questo gruppo di essere un solo meccanismo sulla scena, sempre molto in ascolto tra loro, con una complicità che trasudava dai loro sguardi, pronta a innescare un empatico susseguirsi d’incontri e scontri, animati da dialoghi vivaci, intensi e discretamente commoventi, lontani da toni patetici e forzatamente drammatici.

Quest’affermazione potrebbe essere presa come un’ovvietà, considerando che sono allievi di una stessa scuola. Invece il punto resta proprio questo: è poi giusto assistere a un’ormai scontata diaspora d’intere classi di recitazione che avviene, di solito, post diploma? La logica invece dovrebbe suggerire di sfruttare quelli che possono essere i punti di forza acquisiti durante un così lungo periodo di studio passato insieme, anzi dovrebbe essere naturale evoluzione accompagnare, prendersi cura dei frutti di un nascente percorso artistico. Con grande energia e convincente entusiasmo, i carismatici interpreti hanno animato i loro personaggi, dando prova di promettenti capacità e l’augurio è che il gruppo diventi una meravigliosa farfalla come merita di diventare.

Nel frattempo i fratelli Tanguay sono pronti a darvi il benvenuto a Saint Ludger De Milot. Le Muse Orfane è in scena infatti, e fino al 14 gennaio, al Teatro Td IX Tordinona.


Dettagli

  • Titolo originale: Le Muse Orfane

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