Arti Performative

#ToBorNot. Dopo Leo. Un pomeriggio con Daniele Scattina

Chiara Nicolanti

Per la rubrica sulle tecniche di recitazione “ToBorNot” – a cura di Chiara Nicolanti – si parla, attraverso il ricordo dell’attore e regista romano Daniele Scattina, della scuola del ‘Mulino di Flora’ fondata da Perla Peragallo dopo il suo ritiro dalle scene.


 

Il sole di Roma può regalare ore di beatitudine inattese, come quelle che ho trascorso a parlare del ruolo dell’attore con il regista romano Daniele Scattina.

Scattina ha alle spalle anni di ricerca e decine di spettacoli, ma la nota interessante, in questa sede, è il suo punto di partenza: da giovanissimo Daniele entra a studiare al Mulino di Flora, la scuola fondata dalla Peragallo dopo il suo ritiro dalle scene. Non si può scindere il pensiero di quella grande interprete da quello del suo partner di una vita, Leo de Berardinis. Il loro percorso alla riconquista di una centralità attoriale, di un attore che fosse regista, leader, artista compositore sulla scena, si va ad intrecciare alle esperienze di Bene, Quartucci, ma anche di Sudano, Remondi e Caporossi. Un attore non ubbidiente al tracciato solcato per lui dal regista, ma rientrato in possesso di quei poteri che, soprattutto in Italia, ne avevano fatto uno sperimentatore tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento (con l’eccezione del grande anticipatore, Gustavo Modena).

Scattina assorbe l’idea di uno spettacolo che sia frutto di un lavoro che l’attore inizia su se stesso, per poi estenderlo a tutte le componenti della macchina teatrale: suoni, scenografia, luci (da non dimenticare Leo che cammina sul palcoscenico portandosi in spalla un riflettore), costumi, testo. Anche il testo, certo. Daniele parte da quegli autori che hanno scritto per l’attore, Shakespeare in primis, sentendosi libero di fare innesti, tagli, incisioni.

Lo spettacolo diventa un momento di sintesi tra personaggi che cantano assoli, come una grande jam session: le prove dirette dal regista/attore si svolgono a tu per tu con il singolo personaggio, che si trova ad incontrare i suoi interlocutori, nelle scene che lo prevedono, solo a pochi giorni della rappresentazione. L’incontro tra loro, e con il pubblico, diventa così una sorta di verifica.  Certo, «Perché esista un tipo di teatro vivo e attoriale, lo spettatore deve essere con l’attore sulla scena. Deve avere quello stesso respiro, quella stesso poesia che è l’animo dell’attore. Ecco perché l’attore si deve preparare, deve lavorare a trecentosessanta gradi, perché non è importante quello che dice, è importante quello che è».

Il tipo di essenza di cui parla Scattina, che trasforma un essere umano in piedi su un palcoscenico in un fatto scenico, è ciò cui ogni attore segretamente anela. Ma cos’è? E soprattutto: come si raggiunge? La domanda di sempre, da cui sono nati metodi, sistemi, scuole di pensiero…

Daniele Scattina trova la sua risposta nell’autenticità: essere autentici oggi vuol dire avere una grande curiosità e una grande conoscenza del mondo e di noi stessi.

Questo non vuol dire non dover studiare, anzi: lo studio preliminare della lingua, della corretta fonazione e articolazione delle parole, non è che l’inizio di un percorso di sperimentazione su di essa. La voce deve essere in grado di spezzarsi, salire e scendere, stonare, irrochirsi…

La voce deve essere, sempre, scolpita dall’azione: «La parola viene scolpita dal corpo, che le dà dei ritmi ben precisi ed è in grado di modellarla a suo piacimento. L’attore non è completamente cosciente del suono che emette, la parola è conseguenza del corpo stesso. Deve esserci una sorpresa soprattutto nell’attore, su quello che sta facendo, perché è una parte di sé che tiene nascosta, e che viene stravolta poi da questo tipo di lavoro. È un lavoro volto a preparare un porto, in cui può arrivare la barchetta, ma anche il transatlantico».

Il lavoro preliminare è quindi un viaggio di scoperta tra esseri umani: «mi emoziona molto questo lavoro con l’attore, perchè è la parte più vera di questo lavoro».

Daniele si perde raccontandosi, e finisce a parlare dell’importanza del viaggio, del conoscere una città di giorno e riscoprirla di notte, di rimanere giorni a studiare un movimento, un certo modo di muovere la mano in un determinato momento della messa in scena: cosa c’è dietro un singolo gesto dell’attore? «All’inizio c’è la ricerca di quel solo gesto, poi dal gesto nasce il movimento, per finire all’intera figura dell’attore»

Il personaggio non viene mai nominato: c’è l’attore in primo luogo, la sua vita, i suoi valori, il suo corpo che detiene ogni ricordo. L’attore si trova spesso a dover affrontare personaggi che sono colossi, che sono stati smontati e rimontati milioni di volte; e allora se si sa chi è Amleto, la parte coraggiosa del viaggio sta nell’affrontare quel personaggio con il proprio corpo, con la propria anima. È un atto di fiducia, che trova il suo culmine nel momento finale del viaggio, quando il porto è ormai stato costruito, e il pubblico può entrare.



Una selezione delle notizie, delle recensioni, degli eventi da scenecontemporanee, direttamente sulla tua email. Iscriviti alla newsletter.

Autorizzo il trattamento dei dati personali Iscriviti