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“The Global City”: il “carillon distopico” degli Instabili Vaganti in anteprima al Festival FIDAE

Renata Savo

Un’anteprima mondiale uruguaiana, venerdì 16 agosto, per la compagnia bolognese Instabili Vaganti, che ci ha ormai abituati ai suoi continui viaggi per il mondo intervallati da qualche incursione di rilievo in Italia. Qui infatti saranno in ottobre, dove il 9 debutteranno al Teatro Nazionale di Genova, co-produttore insieme al Festival FIDAE del nuovo spettacolo The Global City. Per ora, il nuovo lavoro andrà in scena in anteprima al Teatro Florencio Sanchez di Montevideo in Uruguay, e dopo la data nella capitale, replicherà sempre per il Festival FIDAE il 18 a Salto e il 19 a Paysandù, città in cui risiede una comunità di origine italiana.

Lo spettacolo, per la regia di Anna Dora Dorno e la drammaturgia di Nicola Pianzola, nasce da un lungo lavoro di ricerca sulle Megalopoli attraversate dalla compagnia durante le numerose tournée mondiali. In scena, le variegate esperienze a contatto con luoghi lontani e spesso pericolosi emergono sotto forma di suoni, videoproiezioni e immagini mappate, che accompagnano le azioni fisiche dei performer.

Abbiamo chiesto alla compagnia, durante una fase di residenza in Svezia, di illustrarci le tappe di questo lungo e articolato percorso di creazione.

Nicola Pianzola, foto di L. Filippi

L’ultima volta che vi ho intervistato eravate in Asia, poi siete finiti in Svezia, prima di andare in scena in anteprima internazionale in Uruguay. Che cosa state cercando/avete trovato di interessante per il vostro nuovo lavoro The Global City durante questa residenza nel nord Europa?

The Global City è la città che si è formata nella nostra memoria, intrecciando i frammentati ricordi disseminati nelle tante megalopoli attraversate durante le nostre tournée. L’idea di questo spettacolo nasce proprio da questa distopica sensazione di non poter collocare con precisione un ricordo in una determinata città, come se tutto si confondesse in un’unica città globale.

Forse proprio per questo motivo, unito ad una casualità (che non è mai casuale), la maggior parte delle tappe di residenza si sono svolte in luoghi ameni, naturali, isolati e sospesi nel tempo, dove abbiamo trovato la tranquillità e le condizioni per rievocare questi ricordi assorbiti rapidamente attraversando le città del pianeta.

Uno di questi è sicuramente la Tokalynga teater Akademi di Atran, in Svezia, un “luogo buono” circondato da foreste e laghi, dove la luce del sole invade la sala di lavoro fino alle dieci di sera e non ti accorgi nemmeno di aver passato un’intera giornata ad allenarti, a provare, a cercare. Lì abbiamo potuto introdurre altri performer al progetto e nella struttura performativa di un lavoro ancora tutto in divenire. Dal paesaggio lacustre dell’entroterra ci siamo poi spostati a Malmo, dove all’Inter Arts Centre abbiamo portato avanti il lavoro di composizione musicale negli studi all’avanguardia di questo centro dedicato alle arti performative, alla ricerca e alla sperimentazione, in cui avevamo avviato la progettazione sonora già lo scorso aprile. Tirando le somme di queste tappe nordiche pensiamo di aver trovato nuove sonorità, ma anche nuove energie in scena, grazie all’apporto dei performer coinvolti. Sono anche nate nuove parti di testo, legate ad episodi vissuti in una delle più recenti tournée in India. Sono state, insomma, giornate molto produttive, e forse siamo stati tutti ispirati dalla luce e dal silenzio, elementi caratteristici dell’estate svedese.

 

The Global City è in un certo senso un ponte fra Italia e Uruguay. Che cos’altro significa per voi?

Diciamo che l’essenza di questo progetto è il viaggio, ma anche la possibilità di unire ricordi, esperienze, episodi lontani nel tempo e nello spazio, per cui, già dalla sua genesi e dal suo sviluppo per tappe di residenza, abbiamo unito fra loro diversi luoghi: dalla campagna francese alle foreste svedesi, dalle città italiane a quelle oltre oceano. In particolare, i partner co-produttori appartengono a due città che hanno molto in comune. Montevideo è stata fondata da emigranti italiani, in gran parte genovesi. Nello specifico, il Cerro di Montevideo, il quartiere in cui svolgeremo la residenza produttiva, è nato grazie a gruppi di anarchici italiani. Stabilire questa collaborazione, fra il Teatro Nazionale di Genova e il festival FIDAE, ha un grande significato per noi, ma soprattutto per la comunità italiana in Uruguay. Attraversare Montevideo ci dà sempre una sensazione di nostalgia, perché sembra di vedere l’Italia di alcuni anni fa, e di rivivere quei luoghi e atmosfere che, nel nostro caso, hanno segnato la nostra infanzia. Anche le persone che incontriamo ci ricollegano in qualche modo a quell’Italia dei bar dagli interni in legno e specchi, dove si discuteva di ogni argomento. L’Italia delle persone che si fermavano in strada a parlare, e dove c’era più calore, in generale. Forse stiamo diventando molto più europei, ma stiamo perdendo allo stesso tempo questi aspetti positivi che ci caratterizzavano.

Speriamo che questo progetto possa attivare un canale di collaborazione continua in futuro fra il nostro Paese e l’Uruguay, questa sorta di “fratello lontano” sconosciuto e familiare allo stesso tempo.


In scena si intrecceranno intensamente musica e movimenti fisici. Quale messaggio volete far arrivare allo spettatore, usando un linguaggio formale, mediato da simboli e suoni?

Mi piace definire questo lavoro come un “carillon distopico”, un complesso meccanismo di suoni, immagini, gesti, parole pronunciate in diverse lingue. Una scatola che contiene visioni che evocano di volta in volta uno spaccato di città, dagli edifici fatiscenti di Calcutta, ai grattacieli ultramoderni di Shanghai, dalle trafficate vie di Città del Messico ai vicoli luccicanti al neon di Seul. A volte il ricordo emerge da un racconto e si trasforma in ritmo, azione fisica, generando suoni e immagini proiettate. Altre volte è il supporto visivo, la doppia video proiezione che invade lo spazio a innescare ricordi numerati e catalogati, associati a una città che abbiamo attraversato e vissuto. Quello che vogliamo restituire è quella sensazione di immersione nella vita di una città, quel ritmo, quel flusso al quale a volte ci abbandoniamo e dal quale ci facciamo trasportare fra schermi che brillano, e folle di persone che ci attraversano. Ogni città ha il suo linguaggio, la sua storia, la sua cultura, ma nella nostra città globale, simboli e codici si mescolano, si fondono come in una babele contemporanea dove si passa da un linguaggio all’altro in maniera naturale, in cui sui tappeti sonori, a volta creati da rumori e sonorità urbane, si innestano quei brani che abbiamo ascoltato nelle città toccate dal progetto. Il linguaggio si fa globale ma allo stesso tempo svela l’unicità di alcune culture e situazioni, portando alla luce episodi della nostra storia contemporanea. È un viaggio in cui i nostri ricordi legati ai luoghi vissuti, innescano i ricordi degli spettatori che hanno magari attraversato gli stessi luoghi ricevendone impressioni e sensazioni differenti.  

 

Quali strumenti di indagine, documenti, avete utilizzato questa volta, per parlare di temi delicati come quello delle migrazioni e delle sparizioni forzate, che, soprattutto quest’ultimo, vi stanno a cuore da diversi anni? 

Quasi sempre nel processo di creazione che ci spinge a produrre uno spettacolo partiamo dalla nostra esperienza personale che viene poi trasfigurata in un tema universale. Per questo spettacolo è stato ed è ancora di fondamentale importanza il nostro vissuto, la nostra esperienza di vita nei luoghi in cui siamo stati in questi ultimi anni, per lavorare e per portare avanti le nostre ricerche. Tutto quello di cui parliamo nello spettacolo nasce da episodi che abbiamo realmente vissuto, da personaggi che abbiamo incontrato e con i quali abbiamo parlato, lavorato, e con i quali ci siamo confrontati. Appaiono così temi globali quali la crisi delle due Coree, raccontate dagli anziani di un villaggio sperduto nei campi di riso della Corea del Sud, la sensazione costante di minaccia che si respira a Tampico, nel Nord del Messico, dove abbiamo realizzato una performance site-specific in un Boeing 727 abbandonato per un festival in cui solo pochi anni prima hanno fatto sparire tre artisti, l’ultimo sanguinoso attentato in Kashmir e le proteste che hanno acceso l’India. Questo lavoro ci ha permesso di puntare un occhio sul mondo ed approfondire alcuni temi e problematiche di Paesi che ci stanno a cuore, luoghi in cui abbiamo lavorato per diversi anni includendo nei nostri progetti attori e artisti locali.

 

Dopo tanti anni di lavoro in giro per il mondo, c’è un desiderio che vorreste esprimere, un consiglio che sentite di voler dare e che l’esperienza sul campo vi ha insegnato, guardando all’Italia e al suo attuale sistema di distribuzione dello spettacolo dal vivo?

Purtroppo in Italia il sistema di distribuzione dello spettacolo dal vivo è praticamente inesistente: ci meravigliamo molto quando in altre parti del mendo vediamo giovanissimi “produttori” lavorare per grandi artisti e distribuire per loro opere anche complesse da far circuitare. Molte università straniere hanno corsi specializzati per i mestieri produttivi, organizzativi e manageriali in ambito teatrale, mentre in Italia non c’è innovazione da questo punto di vista. Una mancata formazione va a discapito di tutti. Le compagnie che devono sopperire a questo imparando da sole a far tutto ma soprattutto investendo molte ore nella formazione del personale, e i giovani che vorrebbero imparare che devono seguire per anni stage, tirocini, etc. per apprendere un “mestiere”. Il tutto si complica poi per la logica degli “scambi” tra teatri e per le leggi ministeriali che non aiutano minimamente a circuitare, soprattutto all’estero, creando un panorama statico e a tratti quasi impenetrabile. Per quanto ci riguarda, per esempio, all’estero, siamo sempre nei grandi Festival Internazionali, in Teatri che superano anche i 500 posti, a volte, mentre in Italia spesso ci ritroviamo a non riuscire a portare i nostri lavori in scena, poiché necessitano di spazi scenici di grandi dimensioni, dato l’uso di movimento e azione fisica che ci caratterizza, poiché il teatro contemporaneo, è spesso confinato ai piccoli spazi ed è ancora avvertito come “di nicchia”. In tutto il mondo ormai vige invece un altro criterio che è quello della qualità, indipendentemente dallo stile o dalla tipologia di quello che fai. Crediamo che la paura dei programmatori e dei direttori artistici sia ormai immotivata e che basterebbe saper comunicare bene le proprie scelte artistiche per avere un buon riscontro di pubblico.

 



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