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“Fare teatro in carcere: un lavoro che amo e odio al tempo stesso”. Intervista a Francesca Tricarico, regista delle “Donne del Muro Alto” di Rebibbia

Renata Savo

Scriveva lo studioso Claudio Bernardi in un saggio diventato in Italia una auctoritas sul tema, Il teatro sociale: arte tra disagio e cura (Carocci, 2004),  che «Il teatro sociale si distingue dal teatro d’arte, da quello commerciale e da quello d’avanguardia, perché non ha come finalità primaria il prodotto estetico, il mercato dell’intrattenimento o la ricerca teatrale, bensì il processo di costruzione pubblico e privato degli individui». Tra le esperienze più significative dell’ultimo decennio, che lavorano nel centro Italia sulla costruzione di questa relazione, si annovera senza dubbio quella del progetto nato nel 2013 presso la Casa Circondariale Femminile di Rebibbia “Le Donne del Muro Alto“, iniziato e portato avanti con tenacia dalla regista Francesca Tricarico dell’associazione culturale Per Ananke, che ha iniziato a occuparsi di teatro e carcere nel 2010. Un lavoro difficile, e non tanto o non solo per il contesto di disagio sociale, che viene abbracciato e accettato. Piuttosto, per la fatica di chi entra da artista in questi ambienti non artistici, dove spesso il proprio ruolo viene considerato non essenziale, subordinato alla macchina più grande e più feroce della burocrazia, e, purtroppo, neppure finanziato in modo adeguato.

Al telefono con Francesca Tricarico si avverte quella stanchezza, dietro l’energia del corpo e della voce squillante, sintomi di una forza di volontà più forte mentre si destreggia in mezzo al traffico di Roma per arrivare puntuale alle prove serali e nel frattempo ci dedica un po’ del suo tempo per rispondere a qualche domanda. La sua è una forza tutta femminile, instancabile, coraggiosa, testarda, oseremmo dire, persino brutale. Non potrebbe essere altrimenti, per fare teatro insieme alle donne che hanno sofferto, commesso crimini, e ora in cerca di un riscatto morale.

Domani 25 ottobre, però, Francesca Tricarico sarà “oltre il muro”, al Teatro Biblioteca del Quarticciolo di Roma accanto all’ex detenuta Daniela Savu, per ricordare che queste storie reali di sofferenza possono finire, e possono finire bene. E che magari la vita può ricominciare a pulsare, nel petto, proprio su un palcoscenico. Di tutto questo, del senso di fare teatro per lei e per le detenute con cui lavora, abbiamo discusso assieme nell’intervista che qui vi proponiamo in occasione di OLTRE IL MURO: Didone, una storia sospesa, questo il titolo dell’evento, che consiste in un reading tratto dal IV canto dell’Eneide di Virgilio.

Non una storia casuale, quella della regina Didone abbandonata dal guerriero troiano Enea.
Nel mito antico si racchiude il presente. Purtroppo ne è stata triste e inaspettata conferma l’episodio sconcertante di cronaca, avvenuto appena un mese fa, di una Medea reale che, morsa da un profondo senso di colpa, ha “liberato” – questo il verbo che è stato usato dalla detenuta infanticida – i suoi figli piccoli, uccidendoli perché obbligati a convivere con lei nel carcere mentre scontava la sua pena; proprio a Rebibbia, dove “Le Donne del Muro Alto” stavano lavorando all’allestimento di Medea. Ecco, allora, che per rispetto alla tragica vicenda, la scelta è ricaduta sulla figura di Didone. Entrambe, Medea e Didone, sono storie di maternità negate, annullate: chi per scelta, chi per un destino avverso; e il teatro, lo strumento che può servire a sensibilizzare verso la sofferenza procurata a tutte le donne che vivono o hanno vissuto questa negazione.

Quando un artista opera all’interno di un contesto sociale disagiato ha sempre qualche difficoltà nell’inquadrare, valorizzare, la sua identità. Tu come definiresti il tuo lavoro? E cosa ti piace, soprattutto, di questo lavoro?

Il mio lavoro è, in carcere come al di fuori del carcere, un lavoro sul teatro, che conserva le caratteristiche di ciò che è il teatro per me, cioè la possibilità di poter esprimere delle proprie necessità e urgenze protetti dallo strumento del testo e del teatro stesso. È un lavoro che amo follemente, proprio per questa opportunità che mi dà di poter raccontare e far arrivare a tante persone esperienze che sono più complesse, come quella del carcere. In questo senso il teatro è uno strumento potente per raccontare quel luogo a un pubblico molto più vario dei soli addetti ai lavori. Spesso si fanno convegni, conferenze, dedicati al carcere che sono solo per addetti ai lavori, mentre il teatro ti consente di comunicare con molti altri tipi di pubblico, dai parenti agli operatori, ai teatranti ai curiosi. Perciò, in sintesi, il mio lavoro lo definirei come una grande opportunità di comunicazione; ma è anche un lavoro difficile, che si può arrivare a odiare: ciò accade quando diventa frustrante, quando la burocrazia ti schiacchia e diventa complicato farlo da un punto di vista economico, perché in questo momento storico, in Italia e non solo in Italia, è veramente difficile sopravvivere di teatro. È quindi è un lavoro che odio anche, per la fatica che richiede; per lo sforzo emotivo, fisico, di tempo, di energie. A volte devi combattere non solo con questo, ma con tutta una serie di problemi che hanno a che fare sempre con il teatro, ma non con ciò di cui vorresti occuparti: la parte burocratica, i permessi, il reperimento dei fondi. Questa, da un lato, è la parte che odio, ma dall’altro lato riconosco che ciò significa imparare a lavorare nei luoghi complessi, dove bisogna fare di ogni difficoltà una risorsa: dalla mancanza di tempo alla mancanza di spazio, nei centri diurni, questi limiti che vivo all’esterno possono essere trasformati in risorse utilizzabili nella scrittura o nella messa in scena. È allora che convertire tutte le mancanze in punti di forza diventa per me un grande esercizio, non solo a teatro.

Hai detto che il testo è uno strumento che permette di sentirsi “protetti” per comunicare alcune urgenze. È un aggettivo affascinante. Puoi spiegare questa funzione?

Le parole di un grande autore, per quanto un artista rimaneggi il testo o ne disponga liberamente nella sua interpretazione, sono in qualche modo uno scudo rispetto al messaggio che voglio veicolare. Tutto ciò che viene fatto con il teatro in carcere per me è un riflesso di ciò che dovrebbe essere il teatro fuori. Lo stesso carcere è una grande lente d’ingrandimento sulla società e sull’uomo, che consente all’ennesima potenza di esprimere delle urgenze attraverso il teatro. Per esempio, Didone ci offre l’opportunità di parlare del tema della maternità negata. A un certo punto Didone dice ad Enea: «Se almeno avessi avuto un figlio da te non mi sentirei così abbandonata» . Il testo costituisce un’occasione per noi di poter parlare di tutte quelle donne che entrano in carcere a trent’anni e ne escono a quaranta. Al di là di se sia giusto o sbagliato, si tratta di una constatazione, di un dato di fatto, che riguarda le detenute, per quanto riguarda la loro circostanza, ma anche le donne in un senso molto più ampio, universale. In questo senso le parole di Didone sono offerte come uno scudo per non affogare completamente nel tema che si sta affrontando. Il testo è altro da me, e contemporaneamente mi permette di scendere dentro di me.

Quali sono solitamente i tempi concessi per le prove in carcere? Come si fa a metter su uno spettacolo di teatro in carcere?

Abbiamo la possibilità di lavorare nel teatro del carcere due volte la settimana; e in più, a ridosso dello spettacolo, possiamo avere delle ore extra che richiediamo per intensificare il lavoro. Considera che per fare due ore di teatro in carcere bisogna trascorrere lì cinque ore: da che arrivi e fai i permessi, e magari ti chiamano, o mentre aspetti, perché qualcuna è andata a fare un colloquio o perché c’è stato un problema. È tutto molto complesso. Le ore che trascorriamo in carcere sono tante, ma quelle effettive per lavorare sono veramente poche. 

Due volte la settimana a partire da quando ?

Solitamente i laboratori si fanno da settembre fino a maggio. Dipende dai laboratori, dagli anni, dalle possibilità che abbiamo, dal tipo di lavoro, dai fondi; che in realtà sono sempre scarsi.

Come vivono l’esperienza teatrale le detenute?

Il teatro per loro è prima di tutto la possibilità di uscire fuori dalle celle. Sicuramente, all’inizio non c’è passione, desiderio, vedono soltanto quella possibilità di sostare in uno spazio ‘altro’, in un tempo ‘altro’ e con un personale che non è quello del carcere. Successivamente, quando iniziano a fare teatro, scoprono la potenza della parola. Uno strumento per essere ascoltate, uno strumento di libertà, di espressione per dire cose, attraverso il personaggio, che altrimenti non si potrebbero dire. Uno strumento di liberazione delle proprie emozioni anche, in un posto che invece è, per struttura, contenitivo e dove le emozioni, come la rabbia, la gioia, devono essere contenute. A teatro tutto questo viene stravolto. E una volta che le detenute comprendono la forza di tutto questo, il teatro, per loro, diventa vitale.

 

(Foto di copertina di Gianfranco Fortuna)



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