Arti Performative Dialoghi

Danza e Architettura: intervista a Francesca La Cava

Roberta Leo

Sempre più spesso la danza si relaziona con altre discipline artistiche e tecnologiche. L’architettura è una di queste. In particolare, durante la quarantena l’immobilità a cui sono stati costretti coreografi e danzatori ha spinto gli stessi non solo a cercare nuovi luoghi (e non luoghi) in cui danzare, ossia, a cercare nuovi spazi e contenitori performativi, ma anche a rivedere l’architettura compositiva del movimento, aprendo la partitura coreutica a nuovi modi di fruizione e costruzione. La coreografa Francesca La Cava parla del suo progetto Danza e Architettura spiegandoci come si possa danzare in altri luoghi e in che modo la danza, o meglio le tecniche compositive siano cambiate durante il lockdown e non solo.

Francesca, in un momento in cui i contenitori culturali stanno subendo grandi cambiamenti in termini di forma, spazio e fruibilità cosa vuole comunicare il tuo progetto Danza e Architettura?

Il progetto Danza e Architettura nasce come performing web-motion. Si tratta di un talk frutto di un’idea pensata insieme al mio ex allievo ed ora collega Marco Lattuchelli, danzatore e coreografo laureato all’Accademia Nazionale di Danza di Roma. Il nostro pensiero è stato quello di dare linfa vitale a giovani autori cui abbiamo chiesto di andare “nei loro luoghi”. Ciò significa che la compagnia ha finanziato la realizzazione di video destinati al cosiddetto capitolo zero, dal quale prende il via il nostro progetto di videodanza. In un periodo come il lockdown, nel quale tutto era fermo e si era impossibilitati a lavorare, si è cominciato a danzare in luoghi diversi; in questo modo la pelle, il corpo e la mente si sono aperti a nuove sensazioni. Quella di danzare in “altri” luoghi è una pratica già usata in passato ma non del tutto affermatasi. Si cerca, quindi, di creare una breve videodanza, coinvolgendo anche gli operatori in modo tale che anche la camera comincia a danzare, a giocare con le immagini. È un po’ quello che accade al cinema. È una danza delle immagini. In queste puntate si cerca di coinvolgere sempre operatori, come ad esempio Cristiana Camba del Festival Internazionale Nuova Danza (FIND), Alessandro Bevilacqua per Ammutinamenti – Festival di Danza Urbana e d’Autore e molti altri nomi della Rete Anticorpi XL. Importante è anche la collaborazione con Collective studio per la promozione e la regia del progetto, che gestisce le varie puntate attraverso una piattaforma da noi acquistata. Il capitolo zero continua con altri capitoli su artisti associati.

Il progetto raggiunge il suo pubblico interamente attraverso delle dirette su piattaforme online. Come stai vivendo il continuo rafforzarsi del rapporto tra danza e tecnologia?

È proprio dal lockdown che è nata questa idea. In primo luogo perché si voleva mettere un focus su altri artisti e operatori; in secondo luogo per realizzare una trasmissione democratica, non autoreferenziale, aperta a tutti. Questo è il fine che giustifica il rapporto tra danza e il mezzo tecnologico che, inoltre, valorizzo tanto, sempre grazie alla collaborazione con Marco Lattuchelli con cui ho un rapporto molto empatico, che è sicuramente la cosa più bella che possa accadere nell’insegnamento.

Il periodo del lockdown e soprattutto quello della lenta ripresa che tutto il mondo della danza sta attraversando è stato e continua ad essere molto difficile. Il tuo modo di coreografare e le tue creazioni ne hanno subìto l’influenza?

La nuova creazione Without Color è stata rimandata. Ci eravamo bloccati come tutti ma ora abbiamo comunque ripreso una ricerca di movimento e sto lavorando con Timothe Ballo e Aminta Sanou, due danzatori di colore eccezionali (da qui si spiega il titolo della coreografia). Non è cambiato il modo di coreografare, ma è migliorato. Mi sentivo come su una nuvola, scrutavo tutto come dall’alto di un osservatorio; il fatto di doverci fermare mi ha aiutato ancora di più nella mia continua ricerca movimento ma, soprattutto, mi ha permesso di fare un confronto con me stessa e con gli altri e, in particolare, un’autocritica alle vecchie opere. Durante questo periodo di “osservazione” diventa anche più naturale accorgersi di ciò che ti accade intorno, di riflettere su temi sociali. Hai più tempo per leggere e studiare. Un artista non deve mai smettere di studiare. Con l’esperienza lo fa in modo più consapevole, impara a osservare e a metabolizzare. Quando la produzione sarà finita sono certa che qualcosa sarà cambiato, ma in meglio. Affrontiamo temi forti come il razzismo, momenti del quotidiano, il colore della pelle. Dovrebbe essere tutto più collaudato. Nel lavorare con gli africani mi sono accorta anche di come risponde la società nel momento in cui deve relazionarsi con un uomo, un artista di colore. Sicuramente tutto sarà ancora più incentrato sull’universalità dell’essere umano, su ciò che ci unisce e ciò che ci differenzia. Si apprezza la diversità, il fatto di apprendere cose diverse dell’altro per migliorarsi.

La tua formazione ha una radice profondissima della tecnica Graham ma anche una cultura umanistica fortemente antropologica che ovviamente riporti nei tuoi lavori. Come definiresti la tua cifra stilistica?

Sicuramente vivo la danza come linguaggio sociale universale in stretto rapporto con l’antropologia. Mi viene in mente una frase del critico d’arte Renato Barilli: «le tecniche non sono affatto stabili, nel corso della storia, ma vanno e vengono, sono istituite in certe fasi culturali, ma in altre perdono incidenza e vengono sostituite da procedure ritenute più efficaci». Con ciò si spiega come le tecniche non sono mai ferme ma evolvono sempre per adattarsi ai mutamenti socio-antropologici. Ho studiato da giovanissima la tecnica Graham per molti anni. La mia insegnante storica di questa tecnica, Elsa Piperno, aveva bisogno di una sostituta e così iniziai a lavorare con lei. Mi diceva sempre che ho un modo tutto mio di danzare, molto vero, che lavora sul sentire del corpo e della pelle. La tecnica Graham più che la tecnica che definisce il mio stile la vedo come una medicina, uno strumento per raggiungere una completa e profonda conoscenza del corpo. Basti pensare alle sue influenze provenienti dallo yoga, dall’oriente, dalla danza indiana. È un sapere enorme che mi è stato donato e che mi consente di aprire il mio corpo a tutto, spesso anche grazie a discipline come il gyrotonic e altre tecniche di supporto per danzatori. L’uso e la visualizzazione del pavimento pelvico, del plesso solare come centro del corpo sono principi saldi che forse incarnano la tecnica di una danza non libera, ma che paradossalmente ti porta a una totale libertà del corpo. Lavora sulle sensazioni, abbatte barriere. Oggi, quindi, mi servo di questi principi per creare partiture coreografiche, ma anche durante l’insegnamento, nell’improvvisazione.

Ormai da anni collabori con l’Accademia Nazionale di Danza, unica istituzione italiana di alta cultura per le discipline coreutiche dove tu stessa ti sei formata. Credi che la formazione per la danza in Italia sia adeguata all’evoluzione del panorama contemporaneo delle arti performative?

In Accademia insegno nelle scuole di Danza Contemporanea e Coreografia quindi parlo di ciò che vivo e conosco ogni giorno. Credo che in questi indirizzi ci sia una cura enorme nella formazione. Il danzatore studia tantissime tecniche. Con progetti come Resid’and, inoltre, gli allievi entrano in contatto con tanti coreografi. Credo che l’Accademia Nazionale di Danza sia una scuola al pari di tante altre prestigiose accademie europee, proiettata sulla contemporaneità richiesta dal momento storico attuale.

 

[Immagine di copertina: foto di Paolo Porto]



Una selezione delle notizie, delle recensioni, degli eventi da scenecontemporanee, direttamente sulla tua email. Iscriviti alla newsletter.

Autorizzo il trattamento dei dati personali Iscriviti