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“Sullo stress del piccione”. I trentenni di oggi secondo Giovanni Anzaldo. Un’intervista

Renata Savo

Che la generazione dei trentenni di oggi non sia la più fortunata è cosa nota, purtroppo – specie a chi scrive, che è sulla soglia dei trenta. Ma pochi riescono a raccontare bene quali siano le conseguenze, nel piccolo mondo delle azioni quotidiane, di tanta frustrazione; della precarietà, del lavoro che non arriva, delle difficoltà di permettersi uno spazio autonomo di sussistenza, della paura di fare il passo più lungo della gamba. Di questo, forse, ci parlerà da stasera 11 maggio a domenica 13 Sullo stress del piccione, uno spettacolo scritto e diretto dal giovane e affermato interprete teatrale e cinematografico Giovanni Anzaldo (tra i suoi più recenti ruoli di spessore in teatro, quello di Atso da Melk ne Il nome della rosa per la regia di Leo Muscato), in scena allo Spazio Diamante, a Roma: quattro ragazzi, trentenni o poco meno – accanto allo stesso Anzaldo ci sono Luca Avagliano, Francesca Mària e Giulia Rupi – sognano di dare una svolta alla propria vita; quattro figli di una stessa generazione, persa tra un bicchiere di vino con gli amici e il silenzio, tra uno sfogo che non porterà a niente e la ricerca affannata di un riconoscimento immediato.

Diplomatosi alla Scuola del Teatro Stabile di Torino e vincitore di numerosi premi tra cui il Premio Ubu come miglior attore Under 30 nel 2010 e il Premio Kinèo giovani rivelazioni alla 71esima edizione del festival del cinema di Venezia (per la sua interpretazione ne Il capitale umano di Paolo Virzì), Giovanni Anzaldo ha scritto Sullo stress del piccione partendo dal desiderio di riportare per iscritto ciò che più volte ha incontrato in situazioni apparentemente ordinarie, enfatizzandone poi la teatralità istintiva: «Mi è capitato più volte di trovarmi di fronte a situazioni paradossali, serate in cui avrei voluto avere una telecamera e filmare quanto stavo vivendo. Non avendo la padronanza del mezzo mi sono limitato a registrare tutto nella mia testa e a riportare quanto avevo visto sul palco». Sullo stress del piccione è il primo testo da lui scritto e diretto. Ne parliamo insieme.

Sullo stress del piccione. Un titolo curioso. Ce ne puoi parlare?

Il titolo può sembrare quasi un trattato filosofico. Vuole puntare l’attenzione su quel tic ossessivo dei piccioni, quel movimento scattoso che fanno con la testa, quel loro vagare per le città senza una meta apparente. Il piccione è un animale che raramente vola, nonostante abbia ali come tutti gli uccelli. Un volatile che di fronte al pericolo anziché spiccare il volo accelera il passo. Questi animali, spesso bistrattati, sono simili ai protagonisti di questo spettacolo: giovani capaci di grandi imprese ma con le ali tarpate.

In che modo hai scelto gli attori?

Una delle protagoniste è la mia compagna, gli altri due sono amici. Avevo bisogno di persone che mi conoscevano. Per lavorare insieme si ha bisogno di utilizzare uno stesso linguaggio, di ridere per le stesse cose, di crederci in egual misura.

 Sebbene trentenne, e quindi considerato ancora giovane nel nostro paese, la tua carriera di attore, complice anche l’alta formazione, si sta muovendo bene tra il palcoscenico, il cinema e la televisione. Di questo spettacolo hai firmato nel 2016 testo e regia, oltre a essere uno degli interpreti. Come mai hai deciso di iniziare ad approfondire altri mestieri del teatro?

Scrivere per me vuol dire abitare un teatro vuoto, farlo con una storia nuova, parole mai sentite e dare voce e linguaggio a personaggi che prima di allora non esistevano. Rispetto al mio mestiere d’attore, quello della scrittura è un’evoluzione che è nata spontanea. Sentivo la necessità, meno impiegatizia, di “orchestrare” un avvenimento anziché limitarmi all’esecuzione. Ma questo accade solo quando alla base c’è un’esigenza vera, altrimenti è meglio stare zitti.

Quali sono i tuoi autori preferiti? Hai avuto qualche modello che ti ha ispirato?

Amo molto Steven Berkoff, Conor McPherson. Ma anche la narrativa “sperimentale”, come Règis de Sa Moreira.

Com’è stato per te essere regista – per la prima volta in assoluto, tra l’altro – di uno spettacolo di cui sei anche interprete?

Quando proposi questo spettacolo all’Argot, quasi quattro anni fa, ero molto spaventato. Non sono un regista, non lo ero e non lo sono oggi. Mi piace però lavorare insieme agli attori, immergerli in una situazione, in un clima, anche musicale, e poi avere l’impressione di spiarli dal buco della serratura. Il confronto però è necessario. Se sparo una stronzata sono i primi a dirmelo. Sono tutti attori consapevoli e talentuosi, non hanno bisogno di grandi direttive, solo di un percorso battuto.

Da questo lavoro teatrale è nato in seguito un cortometraggio prodotto da RB Produzioni (la casa di produzione fondata da Raoul Bova) e distribuito da Premiere Film, ora in circolazione per i maggiori festival. In che misura si sono reciprocamente contaminati i due linguaggi, teatro e cinema, e dove rintracci lo “specifico” dei due linguaggi?

Questo spettacolo diventerà anche un lungometraggio, forse tra due anni, ma lo diventerà. Il linguaggio è più o meno lo stesso, solo più visivo. Il teatro è un progetto visto dall’alto, è come vedere una città con Google Maps senza zoommare sulle tante vie, il cinema invece approfondisce con il satellite, vedi le buche, cerchi di evitarle e scopri strade nuove. Quello che si racconta resta lo stesso. Persone, fragilità, paure. Farlo con un primo piano o con una battuta è lo stesso. Essere sintetici però – perché il cinema è sintesi – è molto complicato.

Come vedi il tuo rapporto con la scrittura creativa, hai qualche altro progetto in cantiere? 

Oltre a concludere le varie stesure della sceneggiatura del “piccione”, ho scritto un altro testo teatrale che spero di portare in scena il prossimo anno, con il contributo di un volto noto del mondo dello spettacolo, un attore strepitoso che ha sposato il progetto. Poi c’è un monologo, ambientato durante la finale di Champions a Torino in piazza San Carlo, la sera in cui morì una donna schiacciata dalla calca.

Facciamo qualche passo indietro. Cosa ti ha avvicinato al desiderio di fare l’attore? Era al cinema che pensavi?

Ho iniziato a fare teatro perché pensavo fosse la tappa obbligata per chi, come me, volesse fare cinema. Per me il cinema era il tetto ed il teatro le fondamenta senza le quali non si può avanzare di piano in piano. Col tempo mi sono ricreduto. Si può arrivare a fare cinema senza per forza partire dal teatro. Ci sono talenti che sanno volare alto senza partire da terra, ma si parla di talenti.

Rispetto al brillante percorso tracciato dagli esordi a oggi, qual è stata l’emozione più grande che hai avuto (selezione a un provino, Premio Ubu, ecc.) e a quale ricordo associ quell’emozione? 

Ricordo che quando Alessandro Gassmann mi disse, un’ora dopo aver fatto il provino, che mi aveva scelto come coprotagonista del suo prossimo spettacolo (Roman e il suo cucciolo) mi sembrò di camminare, per almeno tre orette, a due metri da terra. È una sensazione che non scorderò mai. Ero in aeroporto, dovevo andare in Sicilia. Sarei potuto arrivarci correndo, a nuoto, da quanto ero contento. Ricevere il Premio Ubu è stata un’altra sensazione simile. Stavo facendo un laboratorio con un regista [con Carmelo Rifici, ndr], me lo comunicarono al telefono; dopo aver chiuso la telefonata rientrai nella sala dove facevamo le scene de Il Gabbiano feci la mia e ne venne fuori un Kostja cocainomane. Ero agitatissimo, galvanizzato.

Che peso hanno, secondo te, nella carriera di un artista, i riconoscimenti della critica? 

Il peso di un premio c’è. Ti facilita un po’ le cose, anche se nel mio caso è spuntato fuori solo adesso, perché otto anni fa, quando vinsi l’Ubu, non mi regalarono nessun lavoro, anzi. Fa figo dirlo, come fa figo portare un Rolex , ma la verita è che il Rolex, per dormire, te lo devi togliere. Gli orpelli non servono se non all’ego. L’ego, però, non deve strepitare, ma parlare a bassa voce altrimenti rischia di rovinare tutto. Il premio più bello è lavorare.



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