Cinema

Spoiler Alert. La madre e la sua creatura in “Frankenstein”

Fausto Vernazzani

Mary Shelley e la sua celeberrima Creatura vivono in una nuova felice trasposizione per mano del regista britannico Bernard Rose.

 

Un libro con così tanto tempo sulle spalle come il Frankenstein di Mary Shelley consente ai traspositori di trasformarsi in giganti e a guardare più lontano di quanto abbiano già fatto i predecessori o l’autore originario stesso. I decenni trascorsi danno modo al testo di riconfigurarsi sulle nuove condizioni ambientali, rivedere la forma della società di riferimento e quando la tecnologia (o magia) immaginata ancora ha da verificarsi, si può andare all’infinito. Poi arriva un regista come Bernard Rose col suo nuovo Frankenstein e decide di guardare al prometeo della Shelley con uno sguardo nuovo.

Il film in sé è lontano dall’essere un capolavoro o anche solo memorabile, per descriverlo però c’è comunque un aggettivo di un certo livello, Frankenstein è ammirevole, un tassello fondamentale per chiunque ami questo classico della scientific romance. Fino ad oggi, escluso il Frankenstein di Mary Shelley di Kenneth Branagh, fedele alla fonte finché gli è stato possibile, il tema attorno cui sono orbitati tutti è stato il classico gioco a Dio: cosa accade se l’uomo si sostituisce al creatore e comincia a infondere il soffio della vita nei corpi inanimati? Organici, inorganici, entrambi o nessuno.

Rose si pone senza alcun dubbio dal lato della fantascienza: una coppia di scienziati, moglie (Carrie Anne-Mosse) e marito (Danny Huston, un habitué del cinema di Rose), creano in un misterioso laboratorio un corpo adulto, una creatura dotata di vita (Xavier Samuel), con l’intelligenza e gli istinti di un neonato. Non avendo controllo completo su di lui, la creatura scappa e impreparata ai pericoli e alle bellezze del mondo, porta con sé dolore e distruzione, trasformandosi lentamente in un mostro a causa delle pene infertegli dagli uomini che incontra sulla sua strada.

Il corpo diventa mostro un colpo alla volta, Frankenstein è prima di tutto la storia della creatura più innocente possibile trasformata dai suoi simili in un orrore. King Kong è un parente molto stretto. La novità di Rose sta nell’aver incluso una figura femminile fino ad oggi mancata nel disegno della Shelley: il Dr. Frankenstein era il padre, Igor l’assistente nelle versioni cinematografiche, ma nessuno a rappresentare la madre della Creatura. Stavolta c’è, Carrie Anne-Mosse, algida come suo solito, anche crudele, però sempre con l’istinto di proteggere il proprio figlio, anche se non nato da donna.

Frankenstein ci permette così di esplorare una chiave di lettura differente, non ci lascia qui a discutere di quale sia la trasposizione migliore, se James Whale o Terence Fisher ci sono riusciti meglio e quanto è ridicolo Aaron Eckhart. L’inserimento di una figura materna rivoluziona la storia, umanizza e rende ancor più commovente la vicenda della creatura (banalmente chiamata Adam), a strillare mamma come un bambino abbandonato, a tranquillizzarsi di fronte al suo volto anche se ricolmo d’odio per lei, a vivere ogni dramma come qualcosa che può essere lavato via con un abbraccio.

Il tema dell’abbandono non è più generale, l’uomo creatore e la sua invenzione, è un ritratto adulto e privo di schemi ormai antiquati (Splice di Vincenzo Natali un altro ottimo esempio) forte di una visione che non appare forzata neanche per un minuto: il romanzo di Mary Shelley si adatta senza fare storie alle novità apportate da registi e sceneggiatori. Se dunque decidete di andare al cinema a guardare il Frankenstein di Bernard Rose guardate il film senza pensare a chi è già passato su quella strada, giudicatelo per quelle piccole felici innovazioni da lui portate. Bastano a renderlo fondamentale.



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