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Sebastião Salgado, il fotografo del paesaggio tra devastazione e incanto

Carmen Navarra

Sebastião Salgado, brasiliano che vive a Parigi, è uno dei fotografi maggiormente apprezzati; il World Press Photo lo stima «più volte nominato fotografo dell’anno». In questo periodo, alla Reggia di Venaria Reale (TO), si può vedere l’ultimo suo lavoro, un progetto iniziato nel 2003, dal titolo Genesi, un itinerario fotografico che racconta la bellezza naturale del nostro pianeta.

Dalla mostra “Genesi” alla Reggia di Venaria Reale (TO)

Lo scorso 20 ottobre, invece, è stata inaugurata alla Galleria Forma Meravigli di Milano una mostra sulle foto che ha scattato in Kuwait nel 1991. L’evento, durato fino al 28 gennaio, ha preso il titolo di Kuwait, Un deserto in fiamme. Il reportage è nato dalla volontà di Salgado di documentare l’incendio provocato dai soldati iracheni in ritirata dal Kuwait alla fine della guerra del Golfo e il conseguente tentativo di spegnimento dei pozzi petroliferi in fiamme da parte delle autorità preposte.

Sono stati trentaquattro gli scatti presentati nelle sale della Fondazione, il primo dei quali – manifesto della mostra – sovrasta gli altri: il deserto che arde instancabilmente dinanzi agli occhi di un pompiere, il quale, protetto dagli spray chimici, è sul punto di avvicinarsi alle fiamme. La sensibilità di Salgado passa prima di tutto attraverso la devastazione del paesaggio, tratto che accomuna il fotografo al regista Werner Herzog, che nel 1992 presentò a Berlino un documentario dal titolo Apocalisse nel deserto girato, appunto, nel Kuwait e grazie al quale evidenziò, con altrettanta intensità, il clima di alienazione post-bellico. In tal senso, risultano emblematici gli scatti di Salgado in cui al paesaggio che brucia sono associati elementi apparentemente stranianti, come cavalli o greggi di pecore guidati dal loro pastore, segno di come la vita stia proseguendo in un qualche modo comprensibilmente bizzarro. Salgado, come la sua ampia biografia testimonia (Il sale della Terra di Wim Wenders, nDr) pone l’accento sul rapporto tra la macchina e l’uomo e sulle reazioni che egli sviluppa di fronte alle atrocità della guerra («forse la vita senza fuoco è diventata per loro insopportabile», chiosa Herzog).

Quest’uomo che non è più in grado di discernere il giorno dalla notte, una vita di fiamme da una vita senza fiamme, è pervicacemente pronto a ‘immolarsi’ in condizioni estreme, nonostante appaia fisicamente e psicologicamente provato da quanto vede e vive. Uno degli scatti più emozionanti, da questo punto di vista, è quello che ritrae due lavoratori colti nell’atto di installare un nuovo pozzo: impregnati di petrolio e scintillanti contro un cielo nero e fumoso, manifestano nello sguardo un atteggiamento chirurgico, stoicamente impassibile. Di contro, alcuni scatti ritraggono la reazione opposta, quella di rassegnazione, dovuta a un comprensibile esaurimento delle forze: paradigma di questo aspetto è il ritratto di un pompiere seduto a terra, con lo sguardo perso nel vuoto; sembra quasi un personaggio felliniano, se non fosse che il circo qui è il degrado di un’umanità sprezzante e vendicativa, la cui ferocia, tuttavia, si è provato – letteralmente – a spegnere.
Se da un lato questa mostra ha indotto qualche perplessità a causa di un quantitativo di foto numericamente basso, dall’altro ha rivelato l’essenza dell’arte, che sa essere toccante soprattutto nella sua brutalità.



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