Arti Performative Dialoghi

Raccontare attraverso la macchina e il suono: la sfida di “Oblò” e “Mind the gap” di Giuseppe Stellato in scena a Venezia

Renata Savo

A Venezia, nell’ambito della 46^ edizione della Biennale Teatro, diretta da Antonio Latella, i possessori di un biglietto d’ingresso per qualsiasi spettacolo in programma in quei giorni avranno accesso al Teatro alle Tese da oggi, 24 luglio – fino al 28; e il 4 agosto – a Oblò, performance che accanto a Mind the gap (in scena il 30 luglio e il 1 agosto) reca il marchio della compagnia stabilemobile, gravitante attorno allo stesso Latella e a una schiera di suoi fedeli collaboratori. Tra questi, Giuseppe Stellato, classe 1979, diplomato all’Accademia di Belle Arti di Napoli in arti visive e discipline per lo spettacolo con una tesi sull’installazione multimediale e con all’attivo numerose partecipazioni a mostre ed esposizioni nazionali ed internazionali, sia con lavori personali che con interventi site specific (MADRE di Napoli, La Générale di Parigi, Museo Campano di Capua, Castello Carlo V di Lecce). Il suo percorso è una parabola che interseca arti visive e multimedialità, suono e architettura, e che al teatro giunge per gradi, passando attraverso vie alternative a un’arte che metta al centro l’attore. Per il teatro realizza infatti molte scenografie di spettacoli diretti da Antonio Latella: Ti regalo la mia morte, Veronika, MA, e L’IMPORTANZA DI ESSERE EARNEST, Pinocchio.

Con Oblò e Mind the gap, di cui Stellato cura l’ideazione e la regia, è la macchina a essere al centro del dispositivo scenico, ricordando sia la sperimentazione avanguardista degli anni Sessanta, di artisti come Mario Ricci, fautori di un teatro refrattario alla psicologia e alla narrazione e più votato alla ritualità – ironico e giocoso anche – sia le installazioni-performance senza attori del regista contemporaneo Heiner Goebbels. Tuttavia, nei meta-mondi aperti all’interpretazione di Giuseppe Stellato c’è ancora traccia dell’umano. L’attore non scompare, ma ri-sistema la sua funzione, è un “attante” subordinato alla macchina scenica, congegno in cui l’organico si fonde con l’inorganico, come in un cyborg. In Oblò, per esempio, protagonista una lavatrice: accesa, compie il suo lavoro mentre Domenico Riso, operatore-attore, dipinge con precisione e accortezza una linea spessa con della vernice rossa, su una sorta di barriera trasparente posta alla ribalta. La sua presenza diviene funzionale a innescare una riflessione stratificata che riguarda il rapporto tra media diversi e la nostra relazione con la violenza, con la circuitazione di immagini di un certo tipo; senza svelare nulla, lasciamo qui che sia Giuseppe Stellato a spiegare la natura di questi due interessanti lavori, Oblò e Mind the gap, per molti aspetti interconnessi.

La tua prima formazione avviene nel campo delle arti visive: ti sei diplomato all’Accademia di Belle Arti di Napoli con una tesi sull’installazione multimediale. Quali temi affrontava e in che modo i tuoi studi oggi si riflettono sulle performance che curi da regista?

È una bella domanda. La tesi che ho svolto in accademia era frutto di un periodo in cui, studiando l’arte visiva, ho iniziato ad avvertire l’interesse per l’applicazione sonora. Si trattava di un tassello di una ricerca che mi mancava da approfondire, nell’ambito dei miei studi sull’arte multimediale. Perciò ho cercato di inserire dei racconti all’interno degli spazi: era questo l’ambito della mia ricerca. E questo lo facevo attraverso il suono, che diventava una sorta di scenografia; di conseguenza, lo spettatore, trovandosi al centro dell’installazione, diventava sia protagonista sia fruitore dell’opera. Pian piano ho sentito crescere l’esigenza di spostare questo discorso su un livello più teatrale, utilizzando i tempi e le modalità che sono tipici del teatro.

“Oblò”. Foto di Luna Cesari

Nei due lavori che presenti a Venezia, l’attore non è un personaggio, ovviamente, ma una vera e propria funzione della scena. Da dove viene e cosa ti affascina di questo approccio, del fatto di usare macchine come protagonisti e attori come “operatori”? Hai dei modelli cui ti ispiri, al riguardo?

Non so come ci sono arrivato a questo approccio. Probabilmente ha fatto per me da tramite l’esigenza di richiedere allo spettatore un’attenzione maggiore, e quindi usare il performer – che in questi casi, appunto, non è un attore – come una sorta di tramite tra la macchina e il pubblico, come fosse una sorta di “primo spettatore”. Non a caso lavoro con Domenico Riso, che è un pittore e scenografo. Domenico non ha nessuna velleità attoriale, ma rappresenta un mezzo tra ciò che accade in scena e gli spettatori in sala. Ed è in questo modo che avviene quel rovesciamento di cui tu parli. I modelli sono tantissimi, ma forse sopra tutti, Bill Viola e la sua capacità di narrazione attraverso le immagini. Mi piace pensare di aspirare a fare con l’atto performativo ciò che lui fa con il video.

“Mind the gap”. Foto di Francesca Giuliani – Arboreto Teatro Dimora (Mondaino).

In che modo Mind the gap è un lavoro che lambisce il tema della migrazione e del viaggio?

In Oblò eravamo partiti concettualmente dall’immagine di Alan Kurdi, il bambino siriano morto e arenato su una spiaggia delle coste libiche. Da lì è stato un po’ inevitabile toccare il tema della migrazione, intesa nel senso più ampio possibile. Il viaggio poteva essere il viaggio di chiunque, lasciando solo un indizio ultimo che lasciasse intuire allo spettatore ciò di cui stiamo parlando, ma senza essere giudicanti verso l’evento. Semmai offriamo uno spunto, poniamo una domanda, per stimolare una riflessione intorno al tema della fruizione di un’immagine del genere. Il secondo lavoro, Mind the gap, sta diventando l’approfondimento di quel discorso: lascia il tema della migrazione sullo sfondo andando a esplorare il senso del confine. Stiamo infatti lavorando con un’altra macchina, un distributore di snack, acqua, patatine, di quelle che si trovano nelle stazioni ferroviarie, e il rapporto di questa macchina con la linea gialla, che ti protegge dalla vicinanza del treno e ti limita anche, per una questione di sicurezza. In questo caso è assunta a simbolo del confine per eccellenza. È una delle cose con cui chi viaggia è in più stretto rapporto: significa partire per un posto, lasciarne un altro; difatti è il primo confine che si valica quando si parte.

 

“Oblò”. Foto di Luna Cesari

Oblò è il titolo della performance che ha come protagonista una lavatrice. Sembra un video di YouTube in 3D. Una barra rossa dipinta a mano segna l’avanzamento della riproduzione. Un cortocircuito interessante, perché anche se assimila una logica che appartiene al mondo del web si tratta pur sempre di un evento che accade qui e ora, e che ha ripercussioni a pochi metri dallo spettatore. La scena gioca tutta su uno spiazzamento, che non voglio svelare. È un cortocircuito che hai ricercato? Quali sono state le premesse di questo lavoro?

Questa relazione con la logica del video appartiene nello specifico a questo lavoro. I primi pensieri sono nati proprio dalla mia visione di un video su YouTube, in cui alcuni ragazzi distruggevano una lavatrice. Ho voluto poi ampliare il discorso spostandolo sulle possibilità di fruizione delle immagini che abbiamo oggi, con l’utilizzo del web, degli smartphone, eccetera, e sul fatto che un’immagine, grazie alla sua possibilità di essere virale, crea quasi un distacco con la realtà. La barra rossa, infatti, sta a indicare quel filtro che poniamo fra noi e la realtà, dal momento che guardando qualcosa attraverso un monitor, uno schermo, tutto appare più freddo. A volte mi viene da pensare che non sia esattamente la presenza di uno schermo il motivo di questo effetto, ma la possibilità di poterne fruire a dismisura, rimettendo il video in riproduzione. Possiamo far scorrere in avanti il video se una sua parte ci annoia, mentre a teatro no. Con un’immagine forte come quella su cui abbiamo lavorato in Oblò la barra rossa acquistava, quindi, un significato tutto particolare.

 

In modo ti sei avvalso della collaborazione di Domenico Riso, questa volta?

Me ne sono avvalso nel suo ruolo “ibrido”, come se fosse una via di mezzo tra un performer e un “primo spettatore”, o un addetto alla macchina. È l’entità grazie alla quale lo spettatore riesce ad avere un’interazione con la macchina. In questo lavoro il suo confine tra la scena e il pubblico viene ancora di più lambito.

“Mind the gap”. Foto di Francesca Giuliani – L’Arboreto Teatro Dimora (Mondaino)

Perché? Come hai impostato la scena?

La macchina è al centro del palcoscenico, il pubblico è frontale. A Venezia sarà sullo stesso piano della scena; ci sarà una sorta di vicinanza, un limite facilmente scavalcabile da parte del pubblico. La macchina ha sempre un ruolo fondamentale: da oggetto di scena diventa la vera protagonista di quello che stiamo raccontando, assume una sorta di vita propria per poi tornare a essere un oggetto della vita di tutti i giorni. C’è sempre una forma di estraniazione. Si parte dalla funzione che quell’oggetto svolge nella quotidianità per poi iniziare a raccontare storie attraverso quella stessa funzione, che consiste nel “distribuire cose”.

 

Com’è si è svolto il lavoro di indagine nei vari luoghi che vi hanno ospitato in residenza, L’Arboreto, Olinda e l’ex Asilo Filangeri?

L’ex Asilo Filangieri è un luogo in cui siamo praticamente di casa, soprattutto io e Domenico, che siamo napoletani. È un posto dove facciamo le prove, e ci avvaliamo spesso anche del laboratorio di scenotecnica, d’armeria. Qui ci occupiamo anche delle modifiche tecniche che vanno effettuate sulla macchina. La macchina comporta infatti un grande studio; per funzionare nel modo in cui vogliamo necessita di un lavoro tecnico molto importante dietro. È come quando l’attore ha bisogno di ripassare la sua parte o lo scenografo di preparare la scena o il tecnico luci le memorie. Tutta quella fase, sia tecnica sia creativa, è stata molto condensata lì, all’ex Asilo Filangieri. A Milano da Olinda abbiamo iniziato a mettere insieme i pezzi con le cose che avevamo, ed è avvenuta una prima fase di scrematura. Infine, all’Arboreto di Mondaino abbiamo finalizzato il lavoro, con un’ulteriore tappa all’Asilo nel mezzo per delle modifiche tecniche.

 

Quanto è durata l’ospitalità di ciascun periodo di residenza artistica?

Siamo stati dieci giorni a Milano da Olinda, all’Arboreto anche, circa dieci-dodici giorni, mentre all’ex Asilo Filangieri è stata una fase più frammentata, ma proprio perché lì è un po’ come lavorare da casa. Tengo a ringraziare, ovviamente, oltre alle realtà che hanno sostenuto il lavoro, tutti i miei collaboratori. Franco Visioli si occupa della parte sonora che, come hai visto, in Oblò è fondamentale, ha dato un apporto performativo e live a tutto il lavoro. Al di là dell’aspetto narrativo che il suono porta avanti, c’è stato un discorso di rielaborazione dei suoni che producono le macchine, sia della lavatrice in Oblò sia del distributore di vivande in Mind the gap, che avviene ogni sera dal vivo e quindi sottolinea l’unicità della performance. Quello che accade una sera non si ripeterà la sera successiva, e questo è un aspetto importante che conferisce a entrambi i lavori un aspetto performativo in senso stretto. E poi c’è Simone De Angelis, che si è occupato del disegno luci: il suo lavoro tocca, oltre al disegno dello spazio, il rapporto con la macchina. D’altra parte lo spazio del racconto è uno spazio diverso in base ai luoghi in cui andiamo; nel caso di Salerno, per esempio [alla Chiesa di S. Apollonia, nell’ambito di Out of Bounds – drammaturgie fuori confine a cura dell’associazione L.A.A.V. Officina Teatrale, ndr], c’è stato un adattamento del lavoro, realizzato con pochissime luci, che però bastavano a creare un’atmosfera giusta, adatta alla particolarità del luogo.

 

Il tuo approccio, pur non essendo site-specific, infatti, si può dire orientato a ritrovare nello spazio quella stessa natura dell’arte site-specific.

Sì, quello è l’ambiente da cui io provengo. Le installazioni site-specific sono tra le prime opere che io ho creato; per esempio, a Napoli, al MADRE, al Circolo degli Artisti. Bisogna dire, comunque, che un conto è immaginare un lavoro in base allo spazio e un altro è provare a immaginare un lavoro in uno spazio ogni volta diverso. Un lavoro che già esiste, e che va riadattato, secondo me rappresenta per un artista una sfida assai più interessante.



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