Raccontando un’altra Roma Est per riportare dentro la speranza
«Se ‘n’artra vorta ho ripijiato foco / nun è pe’n incidente, né per’n gioco. / È che ce sta ‘na mano criminale / che me detesta e me vo’ fa’ der male. / Qui dove vivo io, a Centocelle, / ce stanno cose brutte e cose belle. / Le cose brutte fanno assai rumore, / l’impunità le fa senti’ potenti. / Le cose belle vivono d’amore, / so’ miti, silenziose e so’ pazienti. / Ce vorà tempo. Forse qualche mese. E nun escludo pure altre sorprese. / Ma anche se so’ pecora, sappiate, che co’ ‘ste cose nun me spaventate. / Me riempirò de libri e de cultura: / è quello che a voialtri fa paura.» (La Pecora Elettrica, Marazico)
L’incipit di questo focus avrebbe voluto essere diverso. Avrebbe voluto parlare di oasi di (r)esistenza e immagin-azione culturale a Roma, capacità dei luoghi di periferia di trasformarsi da sfondo caotico in cui la cittadinanza quotidianamente si disperde a microcosmo accogliente che abbraccia uomini e donne sotto il segno unificante della cultura. E invece, per dirla in modo aulico (a dispetto di un linguaggio poco levigato), Lasciate ogni speranza voi ch’entrate. La libreria-bistrot “La Pecora Elettrica” nel quartiere Centocelle, già vittima di un rogo appiccato lo scorso 25 aprile della Liberazione, è stata nuovamente bersaglio di un’ingiustizia sociale alla vigilia della sua riapertura. Sono di nuovo divampate le fiamme, proprio dove la comunità con le sue forze aveva aiutato a ricostruire: segno chiaro che la libreria-bistrot, spazio di dialogo e sviluppo di pensiero, lì non s’ha da stare. In duemila si sono radunati a piazza dei Mirti questa sera, per manifestare contro l’ennesimo scempio, invocando una maggiore sicurezza nel quartiere. Una sicurezza che non dovrebbe arrivare convertendo il suolo pubblico in presidio militare, ma proprio attraverso la cultura, l’unione, la solidarietà (e magari anche qualche luce in più per strada, ché non si sa mai).
Riprendendoci un po’ la speranza che oggi abbiamo dovuto lasciare fuori, proviamo a raccontare un’altra Roma Est, incontrata qualche tempo fa proprio a pochi chilometri di distanza, nel quartiere Quadraro, e per la precisione a Largo Spartaco, seguito con curiosità da un pubblico di grandi e piccini. Per due settimane, dal 14 al 28 settembre, si è svolto qui il festival Attraversamenti Multipli diretto da Alessandra Ferraro e Pako Graziani, giunto all’alba del suo ventesimo compleanno. Una magia che non è stato il frutto di scelte orientate verso “un” pubblico piuttosto che un “altro”, ma il sintomo della coerenza a una visione cui questo festival aderisce da sempre: essere – cosa che iniziò a fare in anticipo su molti altri – un festival “multidisciplinare”, e soprattutto, “trasversale”, che mescola all’interno delle singole proposte i linguaggi, dal teatro al circo alla danza. L’attenzione e la curiosità di un pubblico veramente eterogeneo sono infatti il riflesso di una visione prismatica, ampia, e perennemente in ascolto del genius loci; adottando le potenzialità di Largo Spartaco, l’associazione Margine Operativo ne ha fatto territorio aperto, di ritrovo tanto per la comunità artistica quanto per la cittadinanza. Il quartiere Quadraro ha pulsato, così, di vita e di fantasia offrendo l’occasione speciale dello spettacolo dal vivo in piazza, che ci ha restituito un senso di familiarità, tipico delle piazze dei borghi antichi d’estate.
Veniamo alla programmazione. Pare sia stato molto bello il Meeting Point di ERTZA, tanto da sentirne parlare per giorni e aver fatto rimpiangere a chi scrive di esserselo perso. Tuttavia, anche nelle sere in cui siamo stati presenti non ci è andata male. La Chute firmato dal Kolektiv Lapso Cirk e creato e interpretato da Léa Legrand, acrobata ventiseienne di Poiters formatasi a Châtellerault, è stato uno spettacolo incantevole, che ha attirato con vivace curiosità un gruppo di bambini che a poche decine di metri stava festeggiando il compleanno di uno di loro. Su una “sfera di equilibrio”, Lea ha superato le difficoltà dell’asfalto non perfettamente omogeneo danzando su di essa e facendola rotolare, non facilitata, inoltre, dalla presenza ravvicinata dei bambini, privi di coscienza del pericolo e pronti a valicare il confine con quel mondo speciale. La Chute bilancia il circo acrobatico contemporaneo con una teatralità clownesca per parlare di ricordi, e lo fa su molteplici piani di lettura, primo fra tutti, il tema della crescita: non solo spirituale o morale, ma anche sessuale, e di cui la grande sfera potrebbe essere considerato metafora, un oggetto da controllare, da dominare, un partner che, talvolta, entra in conflitto con se stessi. Nel mutare costume per indossare una sottoveste femminile si legge il passaggio delicato dall’infanzia all’adolescenza: fra le righe, il dolore e la fatica di diventare una donna adulta, richiamati dalla punta di un rossetto che colora di sangue le ginocchia. «La mia vita è stata segnata dal dolore, con la morte di mio padre – ci racconta l’artista dopo lo spettacolo – in un periodo della tua vita in cui senti di aver toccato talmente il fondo, vedi la possibilità di concentrare tutte le forze in un progetto che ti aiuti a rialzarti in piedi». Ecco il nome gridato più volte dal fondo di quella stessa vita, che poi è la scena: Marcel. Il primo amore, ma anche l’uomo che si invoca senza ricevere una risposta. Attraverso verticali che evolvono volteggiando, Léa Legrand, vigile ascoltatrice della temperatura emotiva della piazza e in forte empatia con gli spettatori – soprattutto i bambini, mossi dal desiderio di entrare, anche fisicamente, nel suo mondo – ci ha donato uno spettacolo intimo, lirico. Sulle note di Mass (Re-imaged) di Phoria, l’emotività esplode e assume una qualità diversa: l’azione si arresta come nelle arie d’opera, durante le quali ai cantanti si concede grande libertà espressiva.
E poi Galápago, ideato e diretto da Vanessa Pérez, coreografia e interpretazione di Ivan Benito, uno spettacolo selezionato dalla rete di festival “Acieloabierto” (Spagna) per il Circuito 2019, che rivisita la teoria evolutiva attraverso una corporeità archetipica e selvaggia. Ivan Benito somiglia al Calibano della Tempesta: incipriato in un bianco che lascia tracce al suo passaggio, rievoca una narrazione acrobatica e impulsiva del corpo, che prende vita e abita con consapevolezza lo spazio per farne territorio di appartenenza, fondando, in questo modo, una nuova civiltà.
È stata una felice scoperta, invece, quella della performer – e cantante – Claudia Vernier protagonista di Meduse Cyborg diretta da Pako Graziani: «una performance-spettacolo-talk liberamente tratto da Meduse Cyborg – terzo volume dell’edizione italiana di “Re/Search”, la più famosa rivista cyberpunk californiana. Meduse Cyborg racchiude una serie di interviste a donne che rappresentano diverse esperienze e una comune tensione verso un femminismo moderno e radicale […]» si legge tra le note che accompagnano lo spettacolo. Claudia Vernier, fisicità androgina e smilza non abituata a stare su un palcoscenico in veste di attrice ma di cantante, entra in scena con l’andatura e la sagoma di un personaggio che sembra uscito dall’immaginario fumettistico (in particolare, viene in mente il personaggio di Enrico Fiabeschi in Paz, pellicola cult su Andrea Pazienza): la sua presenza è grido di lotta e di rivolta contro le limitazioni subite nel corso del tempo dal genere femminile. Interessante e ricco il mash up della partitura drammaturgica (la ricerca ha richiesto un certosino lavoro di selezione tra le numerose interviste): sono toccati molti temi, dalla legge a favore dell’aborto a quello della libertà sessuale, senza soluzione di continuità. Sugli applausi finali, resta persistente l’amarezza che spettacoli come questo stiano stretti alla cornice dello spazio alternativo del garage dov’è andato in scena. Avrebbero bisogno di uscire fuori e di non essere per “un numero limitato di persone”. Bisognerebbe forse correre anche il rischio di scontrarsi con una platea più ampia e con molta probabilità meno allineata con il pensiero politico espresso. Solo così lo spettacolo potrà essere portatore di un messaggio sociale e rivoluzionario, come di solito sono gli spettacoli di Margine Operativo, di cui c’è fortemente bisogno. Altrimenti, la voce di questa Medusa contemporanea resterà solo un bel canto inter nos.