Arti Performative

Pierpaolo Sepe – Medea

Marcella Santomassimo

Al Teatro Eliseo di Roma, in scena c’è Maria Paiato, mostruosa e divina Medea ispirata alla versione del mito di Seneca

I vetri rotti delle pareti della reggia ricreata da Francesco Ghisu trasudano fin da subito la portata dell’ira devastatrice. È lo spazio dentro il quale si muove la Medea interpretata da Maria Paiato, all’interno del quale prende forma e consapevolezza il suo desiderio irrefrenabile di vendetta che finirà per concretizzarsi in un atto atroce e incomprensibile. La collera le inasprisce le espressioni del volto, la tensione invade il suo corpo fino alla punta delle dita; le mani sono quelle della maga, dell’assassina che ha ucciso suo fratello per amore di Giasone, ed ucciderà i figli avuto da quest’ultimo perché offesa, disonorata, oppressa dal marito e da una terra straniera. Sono questi i tratti che caratterizzano Medea nella versione latina di Seneca che Pierpaolo Sepe ha voluto riportare in scena e che lo stesso autore definì monstrum. Intorno alla donna diventata mito ruota l’intera tragedia, intorno all’attrice, che ci regala un’interpretazione divina, ruota l’intero spettacolo in linea con lo spirito registico di Sepe, amante e sostenitore della centralità dell’attore nonché di un teatro con scopi apertamente politici e sociali. Nella sua trasposizione, operata insieme a Francesca Manieri, alla Corinto greca si sovrappone un Occidente potente, arrogante e incombente le cui azioni, le cui ambizioni e volontà di conquista, spogliato l’uomo, il popolo – di cui Medea diviene così metafora – della loro parte razionale, consegnandolo in mano ad istinti primordiali le cui conseguenze risultano disastrose. In scena si respira l’aria dei Sepe. La tunica di Medea ha le stesse fattezze di quella indossata dalla memorabile Mariangela Melato nel riadattamento che fu di Giancarlo Sepe nel 1986, ma quella creata da Annapaola Brancia d’Apricena, stylist e costumista, è impreziosita da pietre a specchio, che brillano nel lugubre buio. Forte dunque l’impatto scenico dei costumi che trasformano la nutrice (la giovane Giulia Galiani) in una Lolita dall’audace scollatura sulla schiena, il nunzio (Diego Sepe) in un personaggio radical rock, semi camuffato con barba e occhiali da sole; vestono Giasone (Max Malatesta) con giubbino di pelle e il re Creonte (Orlando Cinque) con pelliccia e giubbotto da texano. La scena è letteralmente dominata dagli spasmi della Paiato, mostruosa anch’essa nella sua immensa prova d’attrice. Le figure che entrano ed escono dalle porte, ormai senza specchi, della deturpata reggia, temono il suo sguardo e lo rifuggono. Con lei, sempre sul palco, quasi nascosto in un angolo, il nunzio con i suoi modi ora da buffone ora da cantore, farà da collante tra la platea e il palcoscenico, tra il mito che si realizza in scena, sospeso in un non tempo e in un non luogo, e gli atroci delitti che appartengono all’oggi o che trovano posto nel passato, come le torture di Guantanamo.

Medea è un allestimento affascinante che rinnova il connubio tra Pierpaolo Sepe e Maria Paiato che, iniziato nel 1995, si è poi rinnovato con la messa in scena di un testo altrettanto delicato e mitico come Erodiade, di Giovanni Testori. Si riesce ad intravedere da parte del regista un rispetto profondo per il testo originale di Seneca, che integra ma senza stravolgerlo, a cui sovrappone una veste nuova senza rinunciare al suo vecchio manto. La bellezza dell’interpretazione di Maria Paiato riempie alcune scene di rara intensità. I figli di Medea, che l’autore voleva uccisi sulla scena, mai compariranno nella regia di Sepe. Medea con le mani sporche di rosso ne traccerà i contorni su due fogli bianchi e ne esporrà la morte a braccia aperte, come crocifissa. Ora sono Medea. Ora sono monstrum. 


Dettagli

  • Titolo originale: Medea

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