Arti Performative Focus

Pergine Festival, 46ma edizione: l’impero dei sensi

Renata Savo

Prima di scagliarsi contro il Green Pass, e la sua presunta ghettizzazione, bisognerebbe portare avanti altre battaglie: quanto, per esempio, le sale teatrali e i luoghi di cultura di cui fruiamo sono dei luoghi davvero inclusivi?

Uno dei pochi festival di arti performative in Italia in cui l’inclusione è norma si svolge in Trentino Alto Adige, a Pergine Valsugana (Tn), da quarantasei edizioni: Pergine Festival.

Nelle tre giornate in cui vi abbiamo fatto tappa (15, 16 e 17 luglio) sono accaduti eventi che hanno visto la partecipazione di un pubblico davvero ampio ed eterogeneo, ma non per questo la proposta artistica è stata “semplice” o scontata. Se dovessimo trovare tra quelli un filo rosso, proprio in un (altro) anno in cui abbiamo sofferto per l’abuso di schermi virtuali, che impediscono un’esperienza del vivere quotidiano a trecentosessanta gradi (e cinque sensi), diremmo che una buona parte delle performance ha ruotato attorno al concetto di sinestesia, ovvero – provando a trasferire la figura retorica nel campo delle arti performative – all’associazione che un’azione determina nell’immaginario dello spettatore e che nasce dall’intersezione fra due o più sfere sensoriali. Così, toccare può diventare ascoltare o guardare. L’ascolto può trasformarsi in visione.

“Close Up” di Karakara. Foto di Elisa Vettori

La direttrice artistica Carla Esperanza Tommasini negli anni ha intercettato quel punto di equilibrio in cui l’arte incontra lo spettatore non solo attivamente, e quindi attraverso dispositivi ludici e performativi che lo coinvolgono tra le maglie della drammaturgia, ma anche attraverso performance senza barriere, totalmente accessibili anche a un pubblico disabile, non udente o non vedente, provviste di sopratitoli o audio-descrizioni. La sua visione democratica del performativo include anche spettacoli che potrebbero sembrare spiazzanti, e probabilmente anche meno appetibili per un pubblico tradizionale, ma che, attivando collaborazioni internazionali con artisti professionisti e qualificati originari del territorio, riescono ad attrarre una fetta di pubblico più vasta di quanto si potrebbe immaginare. Sala piena, infatti, nonostante l’approccio provocatorio, per Close Up di Kalakara, musica e coreografia di Anna Sowa per le performer Margherita Berlanda (nata a Pergine Valsugana, ma l’alta formazione fa di lei, oggi, una fisarmonicista conosciuta a livello internazionale) e Dorota Jasinska (violinista polacca), una produzione Pergine Festival che vede il sostegno in Polonia di Fundacja Pole do Popisu, Ass. Cult. Anomalìa e Adam Mickiewicz Institute. Definito uno spettacolo di “teatro strumentale”, ai profani della musica contemporanea sarà potuto apparire come un “affronto” alla musica classica, tanto quanto l’irriverente Gioconda di Leonardo con i baffi (L.H.O.O.Q.) di Marcel Duchamp fu una provocazione nei confronti dell’arte moderna nel 1919. Close Up è uno spettacolo in un certo senso “postmodernista”, nella misura in cui le due musiciste suonano strumenti in modo anti-convenzionale (per esempio soffiando nella cavità del violino) o fanno risuonare oggetti (come un reggispartito) trattandoli alla stregua di strumenti musicali. Non è solo il “modo” a provocare, ma anche il suono, graffiante, distorto e disarmonico, che solo in alcuni momenti cede a un minimalismo elettronico che ricorda alla lontana – a chi scrive – la musica di alcuni gruppi post-rock nordeuropei. La partitura sonora, apparentemente caotica, è stata scritta minuziosamente, suono dopo suono, esperimento dopo esperimento. Close Up è il rito di iniziazione a una visione differente, un gioco erotico, esplorativo, tra l’esecutore e il mondo sonoro che lo circonda.

“Sentire/ascoltare” di Donika Rudi. Foto di Elisa Vettori

Un esperimento dichiarato tale già nelle sue intenzioni è stato il laboratorio di ascolto Sentire/Ascoltare di Donika Rudi, compositrice kosovara associata alla rete In-Situ, piattaforma europea per la creazione artistica nello spazio pubblico. Attraverso il sistema ottofonico in grado di spostare la direzione del suono nello spazio ha offerto a un pubblico anche di non udenti la sua musica acusmatica. La sfida di Donika era capire in che modo si può parlare di ascolto e quali possibilità hanno i suoni, in particolare quelli della vita quotidiana, di essere avvertiti, anche da un pubblico di non udenti.

Donika Rudi, “Sentire/ascoltare”. Foto di Elisa Vettori

Ancora una volta si è trattato di un’operazione che ha spostato il baricentro della fruizione musicale da un senso a un altro, da una funzione a un’altra. In una sala del Palazzo Hippoliti ci siamo messi in ascolto e, soprattutto, abbiamo visto che cosa la musica può significare per una persona non udente, che la vive soprattutto come esperienza sensoriale tattile. Durante lo spazio per le domande e i commenti, la maggior parte dei partecipanti ha dichiarato di non riuscire a percepire nulla se non delle vibrazioni molto leggere, sensazioni che sono migliorate chiudendo il portone di ingresso che affacciava sulla strada. Viene da pensare a quanto questo tipo di ascolto possa realmente incontrare un pubblico, allo stesso modo in cui abbiamo il piacere di scegliere, nei contesti in cui siamo soliti fruire della musica, un brano piuttosto che un altro. E se in questo caso la risposta del pubblico è stata negativa, e l’esperimento stava per dichiararsi fallimentare, c’è da dire che qualcosa di straordinario è avvenuto a un certo punto durante il laboratorio: tra i presenti all’esperimento anche Tia Airoldi, artista che ha proposto di riprodurre la musica di Donika all’interno della sua installazione in programma allo stesso Pergine Festival.

“La stanza elementare” di Tia Airoldi. Foto di Elisa Vettori

Facciamo un piccolo passo indietro. Airoldi ha ideato per Pergine Festival La stanza elementare, un’installazione multisensoriale nata in collaborazione con l’Associazione Culturale Fedora, per un solo spettatore alla volta e ispirata ai quattro elementi naturali. Collocata in un’altra sala dello stesso Palazzo Hippoliti, avevamo avuto il piacere di scoprirla la sera precedente. La fruizione prevedeva l’accesso di un solo spettatore alla volta, ma prima di entrare nella sala dell’installazione, si veniva invitati a sentire i profumi realizzati ad hoc da un Maestro profumiere, ispirati ai quattro elementi che il filosofo Anassimene di Mileto collegava agli stati emotivi. Lo stesso approccio ha sotteso la musica di Airoldi, realizzata con suoni ambientali, strumentazione acustica e digitale per un’esperienza sonora in quattro atti. Nel nostro immaginario la musica ha rimandato alle quattro stagioni, per il modo in cui nel suo intento descrive emozioni e stati d’animo, ma ciò che davvero caratterizza questo progetto artistico risiede nella sua possibilità di fruizione totalmente inclusiva: la musica è stata non solo ascoltata, ma anche percepita a livello tattile, attraverso una pedana sensoriale in legno che ha costituito una sorta di partner con cui danzare liberamente, di cui ascoltare le vibrazioni, con tutto il corpo. Deve esser stata un’esperienza indimenticabile anche per gli spettatori disabili che hanno partecipato al workshop di Donika Rudi, che così hanno potuto sentire la musica dell’artista kosovara tramite il dispositivo adottato da Tia Airoldi. All’uscita dal Palazzo Hippoliti, i partecipanti ci hanno confermato che, in questo caso, reputavano l’esperimento riuscito e avrebbero avuto il piacere di ripeterlo in futuro.

Nullo Facchini, “Tre riti”

Altro progetto multisensoriale, quello di Cantabile 2, un estratto intitolato Tre riti, di una produzione partecipativa più ampia, RE(W)RITE!. Nel Palazzo Gentili/Crivelli, Nullo Facchini, Giuliana Urcioli e Marta Proietti Orzella sono tre guide spirituali che conducono il pubblico verso una riflessione intima sul proprio io. È Nullo Facchini a introdurre gli spettatori, un gruppo contingentato di persone, e ad annunciare che soltanto due dei tre riti a disposizione potranno essere fruiti: bisognerà compiere una scelta casuale. Dato che è stato quindi impossibile scoprire cosa ci avrebbe riservato diversamente il destino o avere una visione d’insieme del progetto, ci soffermiamo sul rito che ci ha colpito maggiormente.

In una stanza arredata con file di sedie simmetriche e disposte frontalmente, separate da un ampio spazio al centro fra quelle, Nullo Facchini ci fornisce delle cuffie per ascoltare la sua voce e le domande che ci rivolgerà in modo più profondo. Avvia, attraverso una serie di domande, infatti, un processo di conoscenza reciproca fra i partecipanti, che si ritrovano accomunati da frammenti di vita analoghi: «Chi di voi ricorda il primo giorno di scuola?», «Chi di voi ha salvato la vita a qualcuno?», «Chi di voi è ricco?», «Chi di voi ha avuto la vita salvata da qualcuno?»; le risposte del pubblico non saranno verbali, ma si manifesteranno con l’alzarsi in piedi e il percorrere lo spazio, muovendosi da un gruppo di sedie a quello di fronte, configurando le esperienze di vita letteralmente come un cammino, individuale e collettivo. Dopo esserci sentiti parte di un insieme, dopo esserci accostati in silenzio all’altro e aver scoperto qualcosa in più di noi stessi, attraverso la conoscenza di persone prima a noi completamente ignote, comprendiamo quanto abbiamo vissuto e quanto ampi sono stati fino a questo momento i confini della nostra esperienza. E ancora, in questo rito esistenzialista che ci accomuna e ci distanzia a causa delle norme anti-Covid, abbiamo trascorso un lasso di tempo in cui, dopo tanto isolamento, c’è ancora l’autentico barlume di un contatto, un incrocio prolungato di sguardi, l’invito a compiere un gesto spontaneo che potrebbe rendere indimenticabile quell’attimo e, forse, la prima manifestazione di un legame ancora da venire. All’uscita sentiamo che la nostra voglia di vivere è più forte di prima. E un po’ timidi e un po’ sorridenti, bardati di mascherina andiamo incontro all’altro con la voglia di presentarci. I riti ci hanno unito dentro, per quel gioco all’esistenza che è la performance, e anche fuori: nella ricerca di una parola non detta, di un tempo non ancora vissuto e di un altrove non ancora raggiunto.

 

[Immagine di copertina: “Tre riti”. Foto di Elisa Vettori”]



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