Cinema Festival

Ouvertures

Stefano Valva

Nel metodo Stanislavskij, all’attore viene chiesto un processo di completa “immedesimazione”, così da perfezionare la prestazione, ed esprimere nel migliore dei modi non solo un’estetica, bensì anche la psicologia e la sfera emotiva del personaggio, reale o fittizio che sia.

Un canone quindi della recitazione (per gli amanti del tema è interessante tra l’altro anche la visione di una serie comedy disponibile su Netflix, ossia Il metodo Kominsky), tant’è che nel film Ouvertures – presentato allo scorso festival di Torino – avviene una sorta di estremizzazione del ruolo dell’attore in virtù proprio di quel metodo, perché qui entrano così in simbiosi con i personaggi, che gli attori sembrano posseduti, da alcune figure storiche che tornano in vita attraverso la performance.

L’opera è diretta e interpretata dal gruppo teatrale The Living and The Dead Ensemble, ossia degli attori haitiani, i quali provano a rappresentare – o meglio a provare – una pièce del 1961 di Edouard Glissant, ossia il Mounsier Touissant. Il titolo prende il nome di un rivoluzionario haitiano, che a causa della rivolta per l’indipendenza della colonia francese, venne portato in esilio nel 1803 sulle Alpi.

Il gruppo attoriale si discosta dai modelli teatrali contemporanei, quindi dall’oculato studio sulla corporeità, essi si ritraggono durante delle gag, nelle quali dialoghi cruciali della pièce vengono mostrati e presentati allo spettatore, così da trasmettere un forte sentimento patriottico, ed una scoperta dei pensieri, delle lotte, degli obiettivi dei rispettivi antenati, i quali lottarono ferocemente per l’indipendenza e per la libertà, che proprio quella Francia – apparentemente liberale – enfatizzò attraverso la carta dei diritti inalienabili dell’uomo, promulgata dopo la rivoluzione del 1789.

In concomitanza con le prove, che il gruppo esegue tra le vie, le piazze e i luoghi iconici dell’isola caraibica, in Francia un ricercatore – sempre haitiano – prova a ricostruire i fatti storici attraverso il ritrovamento di scritti antichi e la traduzione di testi su pergamene, ergo con uno studio stratigrafico. Tale parte dell’opera – ossia l’incipit – risulta in superficie sconnessa dalle azioni del gruppo. D’altronde, le due ricerche seppur opposte sono idealmente in collegamento, in virtù di una precisa finalità: la costruzione di una comunità e di una ideologia della nazione.

Eppure, Ouvertures non diviene un percorso prettamente cinematografico, teatrale, in sintesi artistico sul mondo della rappresentazione e della recitazione, perché lo spettatore non vedrà mai la performance completa, è destinato a scrutare solo le prove, le quali porteranno l’opera verso una narrazione più profonda, più surreale, più psicanalitica. Proprio la psicanalisi qui diviene rilevante, perché è impossibile non pensare in tal caso all’inconscio collettivo junghiano, perché in virtù delle pulsazioni degli attori haitiani, essi man mano scoprono dal sub-conscio i sentimenti e il modo di pensare degli antenati, così da rendere quella psicologia così rarefatta e arcaica, una parte dell’animo delle giovani generazioni.

Il metodo Stanislavskij non è allora soltanto una pratica per svolgere al meglio un ruolo, bensì qui diviene anche un mezzo che proietta gli attori verso un mondo metafisico e allucinatorio, verso gli spettri degli spiriti-guida, verso il riaffiorare le anime dei colonizzati, che nei secoli precedenti posero le radici, per poi costruire – attraverso archetipi che viaggiano tra il tempo e lo spazio – l’identità civile e nazionale.

Ouvertures non è in sintesi né un film storico, né un film politico (anche se sembrerebbe esserci cospicua storia politica), né è un film soltanto meta-teatrale, è altresì un ritratto di una realtà sociale poco conosciuta soprattutto in occidente, ed è un’opera sulla memoria, sulle potenzialità della psiche, sull’immedesimazione tout court, sul riscatto tramite un nuovo viaggio – che influenza corpo e mente – verso la cara ed agognata libertà, che per quelle popolazioni è stata per troppo tempo un’utopia.

 


  • Diretto da: The Living and The Dead Ensemble
  • Musiche di: Joao Polido
  • Fotografia di: Diana Vidrascu, Louis Henderson
  • Montato da: Louis Henderson
  • Casa di Produzione: Spectre Productions
  • Durata: 132 minuti
  • Paese: Francia

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