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“Da qui non è mai uscito nessuno”, riflessione intimista sull’insanabile conflitto tra consumismo e libertà di scelta

Renata Savo

È uno spettacolo da non perdere quello in scena a Roma all’Altrove Teatro Studio il prossimo weekend, da venerdì 3 a domenica 5 febbraio. Si intitola Da qui non è mai uscito nessuno e ha vinto il primo premio al concorso di drammaturgia “Prosit!”, la pièce scritta e diretta da Alessia Cristofanilli, penna emergente dallo sguardo profondo e intimista, che non si fa fatica a definire esistenzialista, proprio come la filosofia di vita praticata dalla protagonista dello spettacolo, la Signora U, insofferente e a disagio nei confronti di un sistema consumistico a cui pure cerca di aderire, seppure con difficoltà. Le situazioni vissute dalla donna offrono allo spettatore un appiglio inevitabile dal quale specchiare se stesso. E un nutrimento per una riflessione critica dal sapore agrodolce. Interprete è Giulia Mombelli, attrice magnetica con un importante percorso di formazione alle spalle che parte dal Piccolo Teatro di Milano allora diretto da Giorgio Strehler per sfociare dal palcoscenico al piccolo schermo.

La composizione del testo è iniziata nell’autunno 2020, durante la pandemia, nel corso di un master di drammaturgia tenuto da una delle più lucide autrici teatrali del nostro tempo, Lucia Calamaro. Abbiamo chiesto all’autrice e regista e all’interprete di raccontarci come si è svolto il lavoro di scrittura e di messa in scena, e che cosa ci consegneranno tra pochi giorni sul palcoscenico romano.

Giulia Mombelli in “Da qui non è mai uscito nessuno” scritto e diretto da Alessia Cristofanilli

Chi è U, la protagonista di Da qui non è mai uscito nessuno?

A.C.: La signora U siamo tutti e tutte noi, che viviamo in una società dedita al consumo, e a divorare la vita e le cose che a loro volto ci consumano. La Signora U è quindi una donna consumata. È la parte di noi che inciampa, che non riesce a stare al mondo, che è inquieta e quasi balbetta davanti all’esistenza. Mi interessava dare corpo, voce e pensieri a una condizione a me è molto chiara, la condizione dell’essere umano ordinario nella società occidentale: stona con lo sfondo e vive completamente dentro al sistema e al meccanismo della sua società, pur possedendo qualcosa che è dissonante.

La Signora U ha un modo particolare di parlare, ha un linguaggio tutto suo che si rifà a continue metafore, come se esse facessero da ponte tra il suo mondo, il suo modo di pensare complesso pieno di ragionamenti e congetture, e il mondo in cui vivere. La metafora la connette alla realtà e al quotidiano: infatti le metafore prevedono tutte elementi molto semplici, come un pomodorino, un cesto di lattuga, la torta il giorno dopo la festa, la fragola…

G.M.: La signora U è un personaggio molto sfumato, parla da un mondo intimo e sottile. Sappiamo poco di lei, soffre di un disturbo che lei chiama “filosofico”, ed è bloccata e immobile davanti ad una porta da cui inizia il suo racconto. Si racconta, si perde nel racconto e poi ritrova il filo. Eppure tutti i suoi ragionamenti non la portano da nessuna parte, perché comunque non riesce a muoversi. È un personaggio che tocca secondo me profondità molto vere, in cui possiamo riconoscerci tutti. Noi entriamo nelle sue parole, nel suo flusso di pensiero. Io la sento un po’ a metà tra Amleto e Paperino: si fa tante domande, si sente rinchiusa in una prigione invisibile con pareti spesse fatte di barrette energetiche, detersivi, scaffali ricolmi di biscotti e marmellate. Si chiede “ma che mondo è questo con luci lampeggianti, lumache di plastica colorate e dove vengo trattata come il cane di Pavlov? Ma dove sono finita?”. Impossibile non empatizzare con lei. L’ho amata molto, da subito, la Signora U.

 

Come e quando è nato il lavoro?

A.C.: Il lavoro nasce alla fine del 2020, e probabilmente non è un caso che sia nato in un periodo così particolare. Il 2020 è stato per chi fa teatro e per chi crea un momento con dei grandi spazi e tempi vuoti, che ha dato però l’occasione di mettersi di fronte a sé stessi e a quello che si vuole dire davvero. Questo tempo ha fatto sì che potessi decidere e vedere anche da lontano quello che mi urgeva dire. I primi testi che compongono la drammaturgia nascono durante la frequentazione di un Master in Drammaturgia condotto da Lucia Calamaro. Dopo la fine del master ho continuato a scrivere e a completare il testo, e da lì a quattro mesi era finito. Nell’ambito del Master ho incontrato Giulia Mombelli, che sin dal primo momento mi è sembrata la persona adatta a leggere i miei testi. Ricordo ancora quando dovevamo scegliere chi avrebbe letto i nostri testi… non avevo alcun dubbio: per me era lei. Sorprese tutti che Giulia entrò subito nella mia scrittura e che sin dal primo testo ci eravamo affezionate al personaggio ritratto.

 

Quali suggestioni ha colto Lucia Calamaro nella tua scrittura? Cosa ne ha pensato?

A.C.: Lucia Calamaro ha trovato il mio modo di scrivere nuovo e «arguto», pieno di rimandi interessanti. Per me questo è stato molto importante, mi ha dato coraggio. Mi disse «cerca di scrivere il più possibile, tieniti allenata, perché sei già un’”autrice”. E in più, fece un rimando alla “drammaturgia del frammento”: mi ci ritrovo tanto almeno in questo testo, perché è ciò che mi interessa, il fatto che la consequenzialità degli eventi, il classico arco della storia, possa essere in qualche modo destrutturato. È una modalità che trovo vicina a quello che sono e alla contemporaneità.

  

Giulia Mombelli, come sei entrata in questo testo?

G.M.: Ho conosciuto Alessia ad un Master di drammaturgia diretto da Lucia Calamaro, la regola era che non potevi leggere tu quello che scrivevi, ma dovevi scegliere qualcuno che leggesse al tuo posto il testo che avevi scritto. Il caso – o forse no – ha voluto che Alessia scegliesse me. Il testo di Alessia, le sue parole e il suo mondo mi hanno risuonato dentro tantissimo già alla prima lettura. Tutto fluiva. Mi è piaciuta da subito la sua scrittura, intanto per il tipo di ironia che credo ci accomuni, perché la sua scrittura ha un ritmo e una musicalità secondo me teatralmente molto efficaci. Alcuni testi nati durante il laboratorio erano quasi perfetti così come erano stati concepiti. Il loro contenuto pieno di belle intuizioni mi ha incantata. Finito il laboratorio, incoraggiate anche da Lucia, con Alessia ci siamo dette: “Vogliamo provare a portare avanti questo progetto?”. E così è iniziato un gran lavoro, non sempre facile ma appassionante, di aggiustamenti e ricerca sul personaggio. Ho iniziato a dischiudere l’immaginario che quelle parole mi suggerivano; a giocare, a fare mio, un linguaggio a volte più vicino alla narrativa che al teatro, ma dava un carattere a questa donna che a volte parla come un libro (mi piaceva molto questo aspetto); a cercare una fisicità e una voce. Un ritmo. Trovare il motore del personaggio, i suoi obbiettivi, quello che lo fa agire, trovare dei movimenti o delle situazioni non per forza realistici, ma concreti per dare verità a una situazione surreale e frammentata. E per questo ci ha dato una grande mano Alberto Bellandi, pedagogo di biomeccanica. Ma la ricerca non è finita…

 

I temi portanti dello spettacolo sono il consumismo e la libertà di scelta. In che modo queste tematiche sono connesse?

A.C.: Per me sono due facce della stessa medaglia. Questa voglia, questa spinta dell’individuo nella storia a ottenere la libertà di scelta, il diritto a scegliere, è stato interpretato da un sistema neoliberista come “più sono le opzioni di scelta, più l’essere umano si sentirà soddisfatto e libero”. Gli studi però dimostrano che quando il numero di opzioni diventa spropositato la sensazione dell’essere umano è di spaesamento: un blocco che gli esistenzialisti chiamavano “paralisi della possibilità”. Davanti allo scaffale dei biscotti, quando vedo 150 pacchi di tipi diversi dovrei, secondo il mercato, sentirmi soddisfatta, libera e appagata da questa estrema possibilità. Quello che succede nella pratica però è diverso. Parliamo sempre del mondo occidentale. Ci sono poi altri sistemi invece in cui uno dei problemi dell’infelicità è proprio quello di avere un’estrema carenza di possibilità. Il mio spettacolo vuole fotografare il momento di spaesamento, il “sintomo” di tutto questo, che si ripercuote in un solo personaggio ed essere umano: la Signora U.

G.M.: Apparentemente consumismo e libertà di scelta sono molto lontane tra di loro, quasi in opposizione, perché il consumismo è un fenomeno che ci induce a soddisfare bisogni non essenziali e privi di contenuto, indotti da pubblicità o imitazione, la libertà di scelta al contrario si ottiene proprio quando si ha la possibilità di decidere in autonomia, liberi da pressioni esterne e forzature. Accade però che il mercato usi la liberà di scelta a suo vantaggio, tanti tipi diversi e inutili di uno stesso prodotto ti illudano di essere libero di scegliere quello che preferisci, ma il fine è sempre far sì che tu compri e consumi l’inutile che ti viene proposto. Così per la Signora U, preda di questo meccanismo: anche se lo riconosce e lo critica, ne è vittima come tutti noi. Si potrebbe poi aprire il dibattito su cosa sia utile e cosa non lo sia, ma questo è un altro tema…

 

Allo spettatore arriva un disagio che gli è familiare, direi persino quotidiano, che scaturisce dal contrasto tra il bisogno sociale di assecondare, incarnare dei modelli, e il desiderio di liberarsene, di poterli rifiutare. C’è un riflesso di questo disagio anche nelle scene e nel costume. È così?

A.C.: Sì anche le scene e i costumi sono elementi significativi per restituire l’immaginario sia interno che esterno al personaggio che volevamo ricreare. Per quanto riguarda i costumi pensati da Nika Campisi, l’idea era quella di ricalcare la complessità del personaggio attraverso la giustapposizione e stratificazione di tinte e fantasie che stridono e confliggono tra loro. Abbiamo lavorato per sommatoria di cromie e tessuti che si spezzano a vicenda. Nika Campisi la definisce una vestizione del tutto sgrammaticata che non risponde praticamente ad alcuna regola di armonia, «quell’accozzaglia di cose che ci si aggrappano addosso senza che veramente si siano scelte, testimonianza di un cortocircuito pop leggermente sospeso su un piccolo tacco che non dona femminilità, ma sospende la figura a qualche centimetro dalla realtà». Gli elementi scenici sono pensati da Eleonora Ticca, volevamo una scena che ci desse accesso sia a quello che la protagonista vede fuori di sé, sia a quello che succede invece nella sua testa, e allora da un lato vediamo una scena molto colorata, molto luminosa e patinata che opacizza il personaggio, a volte lo sovrasta o lo fagogita, dall’altro troviamo una scena senza nessun vero appiglio alla realtà, senza elementi naturalistici. Al suo posto una realtà caduca, dove nulla sta davvero in piedi, come una parola che sfugge di continuo, un’intuizione, un pensiero che non riesci ad afferrare davvero. Per Eleonora Ticca il primo pensiero è stato ovviamente di entità tecnica perché ci serviva uno spettacolo che potesse essere facilmente trasportabile. A livello teorico, osservando lo spazio in cui si muoveva l’attrice, il quadrato vuole essere il riflesso dello spazio mentale di cui è prigioniera, un tappeto quadrato verde acido da cui infatti non esce mai. Questo spazio è abitato da un mucchio di lettere ovvero i suoi pensieri e soprattutto i suoi dubbi che si accumulano. Le lettere sono volutamente dei palloncini, una citazione alla Jeff Koons, una provocazione al tema del consumismo e al senso di colpa che questo scatena. «L’elemento leggero dei palloncini, – nelle parole di Eleonora Ticca – elemento estremamente commerciale, è una comunicazione di effetto, sgargiante e kitsch, ma superfluo nella vita reale». I palloncini sono il riflesso della nostra contraddizione sociale: il pensiero critico e concreto nella forma, ma fragile e fugace nella espressione e fattibilità.

Alessia Cristofanilli

Alessia, la tua esperienza in Giamaica come artista e formatrice ha in qualche modo influito sul soggetto che hai sviluppato?

Sì, sicuramente ha influito nella misura in cui tutto ciò che faccio e che dico si riflette nell’immaginario che rivive nella mia scrittura. In particolare in Giamaica, dove io ho portato per due volte un laboratorio teatrale rivolto ad adolescenti del luogo, ho vissuto in questo villaggio che è molto, molto lontano dal primo supermercato disponibile. Questo ci dà la dimensione, che per me è liberatoria, dell’essere fuori dal consumo. Addirittura mi stupivo che ci sono dei piccoli mercati che decidono di aprire dopo l’ora di pranzo e fino alle 7, aperti per quattro o cinque ore, che è proprio il contrario di quello che ci propone la società in cui siamo immersi, in cui ci sono i negozi aperti h24. In un certo senso questo testo è anche un modo per lanciare una domanda alla quale io non saprei rispondere, se sia meglio avere il supermercato sempre disponibile o avere il supermercato lontano e non avere accesso a molti prodotti, ma da occidentale che va per un breve periodo all’estero godo di tutti i vantaggi, che è un po’ il concetto di fuga dal sistema, che nello spettacolo probabilmente emerge in un punto in particolare, cioè quando la Signora U sembra aver trovato un momento di sollievo. Per dirla tutta, nel montare quel pezzo di spettacolo il mio immaginario mi ha ricondotto a un luogo della Giamaica che si chiama blue lagoon, che è un luogo completamente naturale e silenzioso, in cui si può sperimentare quello che poi nel testo chiamo «lo spazio vuoto».

Info: sito web Altrove Teatro Studio



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