Arti Performative

Marco Bellocchio – Zio Vanja

Marcella Santomassimo

In attesa, chissà, di una trasposizione cinematografia della pièce cechoviana, ci godiamo questa messa in scena che non delude le aspettative.

Se l’Enciclopedia sovietica del 1934 etichettava Cechov come autore statico senza idee e lo paragonava alla pittura espressionista perché anch’essa composta da pennellate a casaccio, la sensibilità della critica attuale ha modellato questo drastico giudizio, addirittura capovolgendolo. E la sensazione che si ha assistendo alla prima di Zio Vanja, in scena al Teatro Quirino di Roma per la regia di Marco Bellocchio, è esattamente contraria a quelle che erano le interpretazioni di inizio Novecento.

Dopo I pugni in tasca, rappresentato qualche anno fa proprio al Teatro Quirino, il regista cinematografico ci prova ancora una volta a sperimentarsi con l’arte della messa in scena. Per farlo si circonda di volti ben noti al grande pubblico; una scelta alla quale si potrebbe forse obiettare una scarsa aderenza a quell’anticonformismo di cui si è sempre parlato riferendosi ai suoi lavori cinematografici.

Sergio Rubini e Michele Placido sono i suoi due assi nella manica, entrambi pugliesi, entrambi provenienti dal mondo del cinema: uno,  nei panni del personaggio protagonista della pièce Zio Vanja, uomo di principi che ha gettato via la sua vita in campagna servendo deditamente suo cognato il professor Alexandr Serebrijakov, uomo di città, marito della sorella defunta, facendogli avere ogni mese il ricavato della tenuta; l’altro, nelle vesti del vecchio professore, uomo di scienze in pensione, accasato con una giovane e incantevole moglie, costretto a vivere in campagna con la consorte perché la città è divenuta troppo cara per lui. Le affinità tra i personaggi e i loro interpreti prendono il sopravvento sull’intera pièce che travalica le terre sovietiche e s’installa in un casale pugliese. Gli stessi interpreti prendono il sopravvento sui personaggi agli occhi del pubblico che aspetta ansioso l’entrata in scena di entrambi per poter sferrare il più caloroso degli applausi.

La scenografia è nello stile di un Bellocchio teatrale minimal ma allo stesso tempo fedele alle indicazioni di Cechov. Nel terzo atto è perfino presente il quadro raffigurante la cartina geografica dell’Africa che lo stesso Cechov reputava, nelle sue note, inutile. Le pareti di compensato risultano funzionali alle uscite e alle entrate dei personaggi, come ai cambi di scena, e ricreano bene l’atmosfera di campagna. Lo spazio teatrale viene sfruttato a trecentosessanta gradi e l’area che si estende oltre il proscenio lascia all’immaginazione il compito di ricreare il famoso giardino delle passeggiate. È dalla platea che fanno il loro ingresso trionfale il professor Serebrijakov, sua figlia Sonja, vera proprietaria della tenuta che da anni lavora al fianco della zio, e sua moglie Elena, donna oziosa, senza nessun talento, che incanta tutti con la sua bellezza e poi scompare, come dirà il dottor Astrov, impersonato da Pier Giorgio Bellocchio, che cadrà presto vittima del suo fascino. Sul fondale sono proiettati dei tronchi d’albero sospesi, così come lo è la vita dei personaggi che fanno la loro comparsa sulla scena, infelici e insoddisfatti: Zio Vanja, dopo aver passato infatti la sua esistenza a venerare il professore, e di notte a ricopiare i suoi manoscritti insieme a sua nipote Sonja e alla sua vecchia madre Maman, che continua a venerare e ad adorare Serebrijakov, ora è come se avesse aperto gli occhi e la realtà gli apparisse sotto una luce nuova. È anche lui innamorato di Elena e disprezza Serebrijakov apertamente, lo ritiene un ciarlatano, un uomo ignorante che ha passato la sua vita a scrivere d’arte senza capirne nulla. Quando il professore propone di vendere la tenuta per potersi permettere una vita più degna della sua posizione, lontano dalla noia della campagna, tutta l’infelicità accumulata fino a quel momento si scioglie nel tentativo di Vanja di ucciderlo con un colpo di pistola, ma sbaglia mira. Difficile perdonarsi un simile errore.

Sergio Rubini è un clown tragico, come il suo collega Michele Placido lo ha definito. Caratterizza il suo personaggio, pone l’accento sui suoi lati sarcastici e ironici, lo sporca con gesti e movenze dai quali trasuda un profondo disagio verso la vita. Michele Placido è invece il classico Herr Professor, come lo appella Vanja, viziato e bisbetico. La sfera femminile è presente sul palcoscenico declinata nelle varie età della vita: Sonja, zitella innamorata di Astrov, Elena, alla quale sarebbe tanto piaciuto avere un marito più giovane, Marija la cui vista è offuscata dalla venerazione per Serebrjiakov e infine Marina, la vecchia balia che dispensa saggezza popolare ed emana il candore dell’innocenza senile.

Si vocifera che nel 2014 ci sarà una trasposizione cinematografia dello spettacolo sempre ad opera di Bellocchio. Nel frattempo, ci godiamo questa messa in scena che non delude le aspettative, che sa stupire con effetti speciali, che sa affascinare grazie anche alla bellezza della scenografia e dei costumi, senza stravolgere né eccedere, un equilibrio tra la Russia e la Puglia. Un Cechov, potremmo dire, nostrano, da applaudire al momento giusto. 


Dettagli

  • Titolo originale: Zio Vanja

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