Cinema

Made in USA – Una fabbrica in Ohio

Franco Cappuccio

“Se quella macchina si rompe, c’è qualcuno lì fuori pronto a ripararla. Se io mi rompo, sono semplicemente spremuto al limite fin quando un altro uomo non prende il mio posto.  L’unica cosa che gli preoccupa è mantenere la linea in attività.” – Phil Stallings, operaio di una fabbrica, parlando a Studs Terkel, Working, 1974

Pochi posti sono al tempo stesso sacri e profani, dignitosi e degradanti, emancipanti e soggioganti come la fabbrica. Può crearsi un’intimità, fisica e altrimenti, tra lavoratori, contestuale all’alienazione tra gli operai e gli impiegati, i collari blu e quelli bianchi. Alcuni film recenti hanno documentato il contenzioso e apparentemente futile stato delle cose all’interno delle fabbriche di oggi, come Machines (Rahul Jain, 2016), Of Rolls and Men (Charlotte Pouch, 2017) e Blow It to Bits (Lech Kowalski, 2019), che ha debuttato all’ultimo Cannes nella Quinzaine des Réalisateurs. Over The Years di Nikolaus Geyrhalter probabilmente è il più centrato di questi, nella sua testimonianza della chiusura di una fabbrica austriaca, scegliendo di seguire alcuni lavoratori per la successiva decade di vita, alcuni dei quali in grado di sovvertire le nostre aspettative di come possa essere la vita post-fabbrica. Che la gran parte si adatti, e sopravviva, non diminuisce in realtà i loro sforzi, o faccia un disservizio al film; le vite, anche le più giuste, raramente soddisfano un tema.

Con il loro lavoro più recente, Made in USA – Una fabbrica in Ohio, Julia Reichert e Steven Bognar applicano le lenti caledoiscopiche al terreno sotto attacco delle fabbriche moderne. Vincitore del premio Miglior Regia (Documentari USA) al Sundance Film Festival 2019 e uscito su Netflix (e in alcune sale negli Stati Uniti) in Agosto, Made in USA – Una fabbrica in Ohio è un racconto omnicomprensivo dell’apertura della fabbrica di vetri per l’auto Fuyao, di proprietà cinese, a Dayton, Ohio. È lo stesso edificio che i registi hanno visto chiudere dieci anni prima con il loro lavoro candidato agli Oscar The Last Truck: Closing of a G.M. Plant (2009), e ci sono delle facce familiari tra coloro i quali sono stati riassunti (anche se assunti ad una frazione di quanto venivano pagati alla General Motors). Ma questa volta il personale ordinario di stanza a Dayton è affiancato dai lavoratori cinesi, dai supervisori cinesi ed americani, e da un formidabile dirigente cinese, il Presidente Cao Dewang. Poco familiare con le pratiche del lavoro americane, nonostante questo il Presidente si aspetta che la fabbrica appena nata vada in profitto entro un anno, e permette a Reichert e Bognar di girare liberamente attraverso la fabbrica per guardare come questo succeda. Quattro anni dopo, stanno ancora guardando.

Poco tempo dopo che Studs Terkel pubblicò la sua monumentale storia orale di più di 100 percettori di stipendio negli Stati Uniti, Working, la Reichert co-diresse il suo proprio documento storico orale vivo e duraturo, Union Maids (1976, con Jim Klein e Miles Mogolescu), che fu anche il suo primo film specificatamente focalizzato sulla forza lavoro americana. Il momento culturale rispettoso del lavoro e di appartenenza al sindacato, che ha aiutato ad attirare l’attenzione sia sul lavoro di Terkel che su quella della Reichert, così come altre gemme pre-reganiane come Harlan County, USA e Norma Rae, si è da tempo esaurito, con il successo post-elettorale Dalle 9 alle 5… orario continuato (1980) a fare da canto del cigno.

Le condizioni dei lavoratori americani e il fato dei sindacati potrebbero essere state ben peggiori, vista tanta trascuratezza culturale. Ma l’impegno della Reichert non si è mai attenuato. Le lotte degli operai – e della classe operaia – sono sempre rimaste centrali nel suo lavoro, da quel ritratto delle organizzatrici del sindacato femminili (anch’esso candidato ad un Oscar) fino a Made in USA – Una fabbrica in Ohio. Il suo ultimo film è al tempo stesso l’apice della sua pratica così come un punto di partenza, nel tentativo di costruire una narrativa corretta, equilibrata e capace dell’intero ecosistema della fabbrica senza tradire i valori fondativi o le ultime lealtà dei registi.

“I nostri cuori sono con gli operai”, racconta la Reichert. Tuttavia lei e Bognar hanno scoperto che i problemi affrontati dai lavoratori e gli amministratori cinesi si sono rivelati allo stesso modo impellenti, e inscindibili dalle lotte dei lavoratori americani. Con i lavoratori cinesi abituati ad orari più lunghi, condizioni più rischiose, e meno tempo libero, le loro controparti americane sono costrette ad adattarsi o resistere. Oppure affrontare di nuovo la disoccupazione.

“C’era una nuova sfida nell’American Factory [che è anche il titolo originale del film, molto più evocativo NdR] – accettare la sfida di una situazione molto più complicata”, racconta la Reichert. “Alcune delle persone con cui siamo entrati in amicizia, e che ci sono piaciute, erano persone che quando ero giovane avrei considerato miei nemici. Avrei avuto una visione di loro più semplicistica. Ma avendo già fatto questo tipo di percorso in passato, volevo realmente entrare nell’amministrazione, invece di essere sulle barricate”.

Come si fanno ad onorare così tanti punti di vista differenti e contraddittori, senza alienarne nessuno di loro? Bognar ha affrontato la sfida tenendo quattro temi principali a girare simultaneamente, scelta che ha pagato nel montaggio ma che è stata complicata da gestire sul momento, e nel tempo. È un film così evidentemente vasto ed ambizioso – la crew viaggia fino in Cina, acquisendo sempre più personaggi lungo il suo cammino – che può essere facile trascurare come tutto l’insieme sia minutamente calibrato (e in questo, un grande merito ce l’ha l’asso del montaggio Lindsay Utz). Il presidente Cao ha garantito l’accesso e non l’ha mai revocato, e si è anche incredibilmente rivelato essere un soggetto intervistato sorprendentemente franco. “Riusciva a capire che non eravamo la solita crew che veniva a fare qualche domanda e poi se ne andava”, dice la Reichert. “Eravamo davvero lì”.

Tuttavia l’accesso può anche aumentare il sospetto. “Gli operai non hanno fatto molto altro che preoccuparsi se il Presidente avesse dato l’ok per noi di filmare. Erano preoccupati di poter essere licenziati. O denunciati da noi”, dice la Reichert. Infatti, passare così tanto tempo con così tante fazioni differenti significa essere al corrente di informazioni di cui le altre fazioni non sono a conoscenza, sfidando i loquaci registi a rimanere estremamente attenti sul non modificare il corso degli eventi. “Portavamo con noi treppiedi pesanti, borse pesanti, ed è difficile camminare con una grossa borsa per telecamere per letteralmente tre miglia nel corso della giornata. Per questo, prendevamo dei passaggi su dei golf cart con uno del personale operativo della struttura, che è parte dell’amministrazione”, ricorda Bognar. “Dopo un po’ abbiamo iniziato a realizzare che stavamo passando questi lavoratori, e loro ci vedevano… su un golf cart. E sembravamo parte dell’amministrazione. Per cui siamo arrivati al punto in cui anche se c’erano 95 gradi [Fahrenheit, in Celsius 35 NdR] nella fabbrica, ci trascinavamo questi treppiedi e queste borse a piedi”. I registi hanno raccontato di essersi presentati ad ogni dipartimento in modo da stabilire delle connessioni in grado di durare ed estendersi anche oltre le mura della fabbrica, e condurre interviste a lavoro, a casa, e tutto quello che c’è in mezzo a queste due cose (oltre che dai registi, le riprese sono state realizzate dal produttore del film Jeff Reichert, da Erik Stoll e da Aubrey Keith).

Quando alcuni dei lavoratori hanno cercato di unirsi in sindacato e hanno affrontato una strenua opposizione da parte della Fuyao, sono esplose le tensioni e la paranoia, mettendo i filmmakers in una posizione sempre più tesa. “Gli impiegati a volte ci chiedevano: voi siete a favore del sindacato, vero?”, racconta la Reichert. “E gli operai che erano a favore del sindacato erano preoccupati che fossimo in qualche modo spie dell’amminstrazione. Ed è una cosa comprensibile. Dovevamo trovare nuovi modi per dire che eravamo neutrali”.

A cosa portano questi sforzi alla fine non è l’elegia emotivamente pronta e in difesa del sindacato di The Last Truck, ma qualcosa di più complesso, più difficile da inquadrare. Sono arrivati nuovi posti di lavoro a Dayton. La fabbrica è di nuovo in attività. Ma le condizioni sono difficili, i salari bassi, e non c’è un sindacato pronto a supportare i diritti dei lavoratori – solo la Fuyao che fa ciò che la Fuyao ritiene sia meglio. Nel frattempo i lavoratori cinesi provano ad adattarsi al vivere in Ohio, che è un mondo lontanissimo da tutto quello che conoscono.

Made in USA – Una fabbrica in Ohio sceglie una cornice abbastanza larga da onorare tutti questi elementi, argomenti ed esperienze – una cornice in grado di contenere le dimensioni della fabbrica dove tutti si riuniscono. Che questa sia anche una sineddoche per Dayton, e per molte città del midwestern americano, e per lo stato dell’industria globale oggi, è innegabile ed intenzionale, ma non è quello che la camera ci mostra.  La camera mostra queste persone, in questo posto, che fanno il loro lavoro, catturate e specchiate da un gruppo di altre persone che fanno il loro. Tutti fanno qualcosa, ed è essenziale che tutti consideriamo il come e il perché, e cosa significa per loro, e a quale costo.


  • Diretto da: Steven Bognar, Julia Reichert
  • Prodotto da: Jeff Reichert, Julie Parker Benello
  • Musiche di: Chad Cannon
  • Fotografia di: Steven Bognar, Aubrey Keith, Jeff Reichert, Julia Reichert, Erick Stoll
  • Montato da: Lindsay Utz
  • Distribuito da: Netflix
  • Casa di Produzione: Higher Ground Productions, Participant Media
  • Data di uscita: 25/01/2019 (Sundance), 21/08/2019 (Netflix)
  • Durata: 110 minuti
  • Paese: Stati Uniti
  • Lingua: Inglese, mandarino

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