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La pienezza del vuoto: “Cantico dei Cantici” secondo Roberto Latini

Andrea Zangari

Nessun testo più del Cantico dei Cantici ha messo d’accordo sull’amore civiltà antiche e moderne, popoli mesopotamici, greco-romani, ebraici, occidentali. Intonazione all’unisono di un poema cantato. Sogno in forma di dialogo fra due amanti che si cercano, puntualmente mancandosi. Shìr hasshirìm, “il più bello dei canti” secondo la traduzione più propria del titolo in ebraico, ha attraversato due millenni chiuso letteralmente al centro della Bibbia cristiana e del Tanakh. Aprite il Libro, e vedrete che sta quasi a metà delle migliaia di pagine di ogni edizione. Confrontarsi col Cantico significa trascinare un coro di interpretazioni, traduzioni, riferimenti degni della biblioteca-labirinto di cui parlava Jorge Luis Borges. Appaiono dunque necessarie l’apertura polisemica e l’imbastardimento linguistico-visuale che abitano nel formidabile spettacolo che Roberto Latini porta in giro per l’Italia (e non solo) dal 2017. Anno in cui questo Cantico era valso a Fortebraccio Teatro due meritati Premi Ubu: Miglior progetto sonoro a Gianluca Misiti e miglior attore a Roberto Latini. Siamo tornati ad assaporarlo nel piccolo Teatro Rosaspina di Montescudo, borgo antichissimo fra Rimini e San Marino, tutto concentrato nelle vecchie mura dirute di una rocca con vista sull’Adriatico. A riprova dell’ubiquità del Cantico e della fecondità dello sguardo che Latini gli rivolge, anche quel pubblico, in prevalenza anziano e locale, ha gradito enormemente la prova. 

Il Cantico, vale la pena ricordarlo per il moderno schiacciamento della sua ricchezza fonetica nella mutezza della pagina stampata, nasce per essere cantato, in linea con le tradizioni liriche della poesia cerimoniale egizia, palestinese e siriaca. Shìr hasshirìm introduce al verseggiare come un bisbiglio setoso: l’incantato profluvio d’immagini a seguire origina da un dato sonoro. Come l’attività onirica è innescata spesso da un input ambientale di natura acustica, così la sapienza dell’antico poeta anonimo valorizza la sinestesia come linguaggio del sogno. Se questi sono elementi caratterizzanti, Latini li conosce e li sfrutta al meglio, tutti quanti, nella costruzione scenica. Canto, sinestesia, sogno. Quando il pubblico prende posto è già sul palco, addormentato su una panchina lievemente dondolante. Un clochard androgino in marsina viola, parrucca e mascara sovrabbondante. Tutto quello che segue potrebbe dunque essere un sogno. Attaccata alle spalle della panchina una cornice riquadra lo spazio “interno” di una postazione radio. On air, come da scritta luminosa: le parole del Cantico sono alternate ai Placebo, a Raffaella Carrà remixata da Bob Sinclair e alle note originali di Gianluca Misiti, come in una sconnessa diretta radiofonica. “O figlie di Ierusalèm io vi scongiuro \ non risvegliate non risvegliate \ Il mio amore se non ne ha voglia” recita l’amata nell’importante traduzione di Guido Ceronetti (1985). E come Ceronetti, Latini abolisce ogni superfetazione simbolico-liturgica, consapevole che il Sacro albeggi ben prima e più profondamente del religioso. In entrambi il linguaggio è “strappato all’indecenza delle versioni senza poesia” (Guido Ceronetti, 1985). Entrambi, nelle logiche divergenze dei rispettivi media, lavorano sul respiro, il vuoto tra le parole. Latini sdoppia il recitare in due correnti vocali alternate: una “in maschera”, grottesca, l’altra più naturale, come seguendo una struttura paradossale in cui sonno e veglia si passano la parola bruciando le riserve logico-razionali del linguaggio. Lo sdoppiamento prosegue nel vario corpo-a-corpo che l’attore gioca coi microfoni, nelle allucinatorie distorsioni sonore che saturano lo spazio e potenziano i ritorni della voce sola. Cantico dei Cantici è così restituito, attraverso una partitura gestuale e vocale d’incommensurabile bravura, alla sua mistica nuda, erotica, misteriosa; alla corsa senza respiro né lieto fine dell’amata sulle tracce dell’amato, e viceversa. Eros è figlio della Mancanza. Si potrebbe dire che quella di Latini è una lettura-non-letta: le parole sono pescate nel corpo, o vicino al corpo, o in fondo alla platea, dove lo sguardo inafferrabile sembra penetrare, riversate sul pubblico con una rielaborazione del corpo che le sovraccarica di una moltitudine emotiva personale. Cantico dei Cantici può essere rivisto mille volte con la certezza che il corpo-strumento di Roberto Latini interpreterà la medesima partitura, ma ogni volta diversa per il nonnulla di un respiro che ne trasfigura la vibrazione.

Certo, la natura dell’operazione non vuole essere filologica. Nelle maglie di un testo che è in sé irriducibile a una versione originale (a meno di leggere la versione ebraica, che è comunque selezione di una tradizione precedente in larga misura orale), entrano riferimenti spuri che la storia ha accumulato al suo nutritissimo fianco. Né si procede con ordine o completezza lungo gli otto poemi del libro. Piuttosto, le parole si fanno fantasma di se stesse e s’inseguono come gli amanti, per ripetizione o effetto echo. D’altro canto, ogni sogno è palinsesto. Così erompe l’audio del celebre passaggio di C’era una volta in America, ove Deborah recita, a Noodles, alcuni passaggi del Cantico alternati a canzonatorie constatazioni dell’incomparabilità fra la poesia del testo e la condizione di indigenza del ragazzo di fronte a lei. “Che peccato…” conclude Deborah, offrendo a Latini un refrain che indica l’altro versante del sogno: il risveglio nella mancanza, nel vuoto. Vedere il Tutto nel Nulla è paradosso smisurato quanto parlare ad un telefono senza fili, segno di solitudine che Latini mette tra gli oggetti di scena. Il giaciglio e il telefono, frammenti di una comunicazione frustrata, ricordano La voix humaine di Jean Cocteau, la cui non-comunicazione è scimmiottata con mimica sospesa, irrefrenabile, insofferente. Le parole e i gesti tormentati vengono accolti e ascoltati con fiducia anche in un piccolo teatro della provincia romagnola, da un pubblico cui non manca una commovente aura felliniana. Il Cantico dei Cantici è, ancora e sempre. Decisamente. On air.

 

[Immagina di copertina: foto di Angelo Maggio]



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