Arti Performative Focus

La felicità esiste: si è spostata dal “giardino dei ciliegi” al palcoscenico

Renata Savo

Nessun’immagine più di un ambiente domestico potrebbe contenere in modo così indistricabile aspirazioni e storie individuali: le case in cui facciamo ritorno accendono ricordi, sogni, conservano dati, indizi che riflettono il percorso di costruzione della nostra identità, chi volevamo essere e chi siamo stati.

Nella storia del teatro, André Antoine fece da apripista al Naturalismo, movimento di pensiero che affermava il vigore di un preciso determinismo tra  il comportamento dell’individuo e l’ambiente circostante (milieu). Dall’habitat derivano infatti gli habitus, e attraverso quelli si forma l’identità di ciascuno; non a caso habitat e habitus hanno la stessa radice semantica (lat. habeo), riconducibile all’idea del possesso: l’identità, infatti, è tutto ciò che rende un’entità definibile e riconoscibile proprio perché possiede un insieme di qualità.

Partendo analogamente da un approccio “scientifico” nei confronti della realtà sociale, un secolo e mezzo dopo, il teatro documentario del reality trend tedesco (in particolare dei Rimini Protokoll), su cui la compagnia Kepler-452 formata nel suo nucleo principale da Nicola Borghesi, Enrico Baraldi e Paola Aiello ha modellato la sua personale ricerca artistica, dista anni luce dall’antesignano naturalista. In scena non ci sono soltanto attori, ma persone reali e con i loro vissuti, non considerate “non professionisti” della scena, bensì esperti della vita quotidiana, cultural strangers che in virtù delle loro esperienze di vita costituiscono un campione della realtà sociale. Con la loro presenza riflettono la distanza tra conoscenza e opinione comune su un dato tema, e in tal senso “non essere attori” si configura come un valore aggiuntivo e non sottrattivo: «quelli sul palcoscenico non verrebbero giudicati per quello che non sanno fare (per esempio, recitare), ma piuttosto per il motivo che giustifica la loro presenza sul palcoscenico» [cfr. F. Malzacher, Dramaturgies of care and insecurity. The story of Rimini Protokoll, in M. Dreysse e F. Malzacher (a cura di), Experts of the Everyday of the Everyday: The Theatre of Rimini Protokoll (ed. or. Experten des Alltags. Das Theater von Rimini Protokoll), Alexander-Verlag, 2008), pp. 23-24]; per il possesso di determinate caratteristiche, quindi. Di conseguenza, nella stesura della drammaturgia, l’eventuale utilizzo di un testo letterario di riferimento non concorre alla rappresentazione, come nel teatro naturalista, di una visione del mondo che risponda verosimilmente al comportamento della realtà sociale, ma si declina come stimolo utile a recuperare la distanza tra l’individuo e il proprio modo di rappresentare ciò di cui si occupa nel quotidiano; un modello incarnato perfettamente da Il giardino dei ciliegi. Trent’anni di felicità in comodato d’uso, fresca produzione ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione che ha debuttato all’Arena del Sole di Bologna il 17 marzo scorso e di cui segnaliamo la replica romana straordinaria al Teatro India, programmata all’interno del festival Dominio Pubblico della scena Under 25 il prossimo 29 maggio.

Quando i non-attori si confrontano con la scena, luogo dell’alterità e tempio di identità passeggere, evocano il proprio vissuto come paradigma di un’indagine sociale svolgendo un triplice compito: rappresentare l’opera-pretesto con i suoi personaggi, la propria singolare identità e quella della società in cui sono immersi. Proprio ne Il giardino dei ciliegi di Čechov questi temi (il legame tra possesso e identità, tra perdita e alterità) riverberano con somma potenza. Il teatro si riscopre confine entro il quale poter sperimentare, misurare, la coincidenza/differenza tra se stessi e i personaggi cechoviani, tra vissuto e rappresentazione, sfera pubblica e privata, trasferendo su un piano simbolico non solo una storia, ma anche un’autobiografia ragionata, grazie agli stimoli e alle domande degli attori Nicola, Paola e Lodo (Lodovico Guenzi), che, chiamati per nome proprio (quando non interpretano i personaggi cechoviani), agiscono in modo analogo a conduttori di un talk show televisivo, come spesso accade nelle performance nei gruppi del reality trend, talvolta formati da ex professionisti nell’ambito del giornalismo e quindi riprendono con spettacolare efficacia i format dei mass media. Sul palco, la storia di Giuliano e Annalisa Bianchi va, così, incontro alla fiction dell’opera, che si fa pretesto per raccontare un altro pretesto, e cioè l’incontro di un gruppo di giovani artisti teatrali con due coniugi bolognesi, che il 9 settembre 2015 ricevettero un avviso di sfratto dalla casa in cui hanno vissuto per tre decenni, nella Bologna coi suoi tanti pregi e difetti; i “giardini dei ciliegi”, le storie di sgomberi, la costruzione di FICO – Fabbrica Italiana Contadina definita nello spettacolo «Il posto che tutto mangia / E tutto espelle / Identico» (e situato proprio di fronte alla casa-giardino dei ciliegi di Giuliano e Annalisa). E viene subito in mente, del testo di Čechov, quel suo porsi anche come racconto di un irreversibile processo storico: l’ascesa della classe borghese, la rapida espansione industriale, la lottizzazione dei terreni per edificare villette.

E allora, che cosa resta dell’identità, se un bel giorno un luogo magico fatto di passato, presente e futuro viene spazzato via per sempre? L’interrogativo è fortemente attuale, e, pure se non in modo esplicito, si ritrova proiettato nella nostra realtà mediatica, dal dramma dei terremotati a quello dei rifugiati politici, in chi si è ritrovato strappato a tutto ciò che fino a un attimo prima e per lungo tempo gli era appartenuto come una parte del suo essere: il “giardino dei ciliegi” è in questo senso luogo dell’anima che il gruppo Kepler-452 ha scoperto per caso, in giro per Bologna, e lo ha trovato nella casa colonica in cui abitavano Giuliano e Annalisa, perciò chiamati a interpretare se stessi e il testo cechoviano a un tempo leggendo all’occorrenza le battute associate a Gaev e a Ljuba. Entrano con addosso voluminose pellicce, un po’ alludendo a un immaginario nordico, come la Russia in cui è ambientata la fonte, e un po’ suggerendo l’idea di chi si è messo quanto più vestiario poteva con l’intenzione di portare via molte cose nel minor tempo possibile. In quel luogo dell’anima concesso dal Comune avevano trascorso trent’anni di felicità, che adesso giacciono metaforicamente sulla scena, racchiusi in scatoloni, in gabbie, in una tiepida proiezione bidimensionale che ritrae una stanza da letto, dietro una grata o un separé, arredo provvisorio, mobile, transitorio come il teatro, come la vita piena di dignità di chi è senzatetto; trent’anni di felicità seppelliti ma pronti a risorgere attraverso ricordi, un’intervista, il racconto di una cena, una telefonata rubata, tra una battuta ironica e il tentativo di interpellare un piccione ingabbiato; seduti sul divano, sulla ribalta, recuperando una porzione di quella quotidianità perduta che Giuliano e Annalisa condividevano con amore assieme ad animali di qualsiasi tipo, in una sorta di zoo domestico (con loro, infatti, vivevano tarantole giganti, boa costrictor, babbuini, un lupo, un leopardo, upupe, pappagalli, maiali, cani, gatti) e in un regime di assoluta tolleranza da parte della legge.

Nello spettacolo di Kepler-452 non c’è pathos, non c’è retorica; al contrario, c’è molta autoironia, come quando si festeggia in apertura dell’asta per vendere il giardino dei ciliegi, e come parafrasa Lodovico: «Le feste che mette in scena Čechov sono feste tristissime, in cui nessuno si diverte. Tutti cercano di divertirsi ma nessuno ci riesce. Una sorta di enorme sforzo collettivo completamente inutile. Avete presente  tutti i capodanni della vostra vita? In questo clima sospeso sono tutti a disagio, tutti un po’ in prestito, tutti tesi, coi nervi a pezzi. Una condizione comprensibile, no? Un po’ come quegli spettacoli in cui a un certo punto gli spettatori vengono obbligati a fare qualcosa sul palco […]» (il testo è dello spettacolo è stato pubblicato da “luca sossella editore” all’interno della collana di drammaturgia Linea curata da Giacomo Pedini per Emilia Romagna Teatro Fondazione).

Qualche spettatore viene trascinato e sul palco ci finisce davvero a ballare, a suonare, a bere prosecco, entrando nell’opera e figurando come uno dei suoi personaggi minori; quella della festa è una scena che ha riacceso in chi scrive il ricordo di uno degli spettacoli più indimenticabili degli ultimi anni (anche ispirato a un testo di Čechov, “Tre sorelle”), E se elas fossem para Moscou? della regista Christiane Jatahy, andato in scena alla Biennale Teatro 2016 nello stesso periodo della Biennale College, dove Nicola Borghesi era allievo del maestro Stefan Kaegi dei Rimini Protokoll.

Questo nuovo lavoro di Kepler-452 è come uno di quei capolavori del cinema o della letteratura impossibili da sintetizzare, perché parla di uno sfratto, di un incontro tra un giovane gruppo teatrale e due coniugi, di una città, di teatro, di come si sopprimono i piccioni per mestiere, di come si fanno le tagliatelle, di desideri e aspirazioni, di un’opera di Čechov, e, soprattutto, di che cos’è la felicità, oggi come ieri, e di come provare a recuperarla – magari partendo da un palcoscenico.

 

IL GIARDINO DEI CILIEGI. Trent’anni di felicità in comodato d’uso

ideazione e drammaturgia Kepler-452 (Aiello, Baraldi, Borghesi)

regia Nicola Borghesi
con Annalisa e Giuliano Bianchi, Paola Aiello, Nicola Borghesi, Lodovico Guenzi
regista assistente Enrico Baraldi
assistente alla regia Michela Buscema
luci Vincent Longuemare
suoni Alberto “Bebo” Guidetti
scene e costumi Letizia Calori
video Chiara Caliò
foto Luca Del Pia
produzione EMILIA ROMAGNA TEATRO FONDAZIONE
Si ringraziano per l’ospitalità e la disponibilità ATER Circuito Multidisciplinare dell’Emilia Romagna, Teatro Comunale Laura Betti e Teatro dell’Argine



Una selezione delle notizie, delle recensioni, degli eventi da scenecontemporanee, direttamente sulla tua email. Iscriviti alla newsletter.

Autorizzo il trattamento dei dati personali Iscriviti