Arti Visive

Intervista al collettivo Fotosocial

Gabriella Bologna

Un collettivo internazionale di fotografi che esplora culture diverse e disagio sociale attraverso  immagini e reportage in tutto il mondo

Come nasce il Collettivo Fotosocial?

L’idea del Collettivo nasce nel 2006 da un gruppo di amici appassionati di viaggio e fotografia, con la voglia di condividere pensieri e riflessioni nate da esperienze di contatto con genti, realtà e culture diverse dalla nostra. Nel tempo è cresciuta sempre più l’esigenza di raccontare alcune storie attraverso il linguaggio che avevamo scelto, quello delle immagini. Negli anni le attività e la struttura del Collettivo Fotosocial sono state aggiustate e perfezionate fino alla vera e propria costituzione formale, nel 2013.

 

Chi sono i fotografi coinvolti?

Fanno parte del Collettivo: Dario Antonini, Massimo Branca, Igor Marchesan, Walesa Porcellato, Alessandro Rampazzo, Devid Sbeghen, Enea Stocco, Luca Toffolon, Antonio Tomeo, Elisa Vettori. Attualmente non tutti i membri del Collettivo Fotosocial sono ‘reporter’, ma tutti si occupano di fotografia nel senso più ampio della parola. Alcuni di noi, in base ai propri interessi e inclinazioni personali, si immergono in alcune delle vicende umane e con pazienza ne raccolgono impressioni, appunti, emozioni e riflessioni sotto forma di immagini. Poi insieme, contribuendo ciascuno con il suo background accademico (dall’antropologia alle scienze giuridiche, dalle arti visive alla cooperazione internazionale), cerchiamo di tramutare le nostre osservazioni in una fonte di conoscenza utile alla società. Come scrisse George Rodger, “qualunque cosa tu vedi sul vetro smerigliato della tua rolleiflex è realtà. La fotografia è ciò che tu fai di essa”.

 

Quali sono i temi su cui avete lavorato recentemente?

Diciamo che, a grandi linee, gli ultimi lavori riguardano argomenti come emarginazione, immigrazione e violazione dei diritti umani. Massimo e Igor hanno trascorso diversi mesi in una delle comunità più disagiate di Bucarest esplorandone le condizioni di vita e osservando, tra malattie, droga e prostituzione, le logiche che determinano l’esclusione sociale e la formazione di nuovi gruppi di appartenenza. Luca ha sviluppato, nel corso di un paio di anni, un progetto per far luce sulle storie dei rifugiati che, dopo aver affrontato la moderna rotta degli schiavi gestita dalla mafia internazionale, si vedono privare di alcuni dei più elementari diritti umani da parte del sistema burocratico italiano. Elisa e Alessandro si stanno interessando al tema della vendetta di sangue in Albania, per raccontare le conseguenze della violenza e le speranze di pacificazione tra le famiglie in lotta da anni.

 

Che ruolo ha la fotografia d’impegno sociale oggi?

La fotografia, o più genericamente il linguaggio visivo, ha una funzione fondamentale nella comunicazione contemporanea. Come un testo scritto, come un discorso orale, può trasmettere dati ed emozioni, ma con maggiore immediatezza. Esattamente come gli altri linguaggi, la fotografia è un mezzo in grado di informare, coinvolgere, smuovere le coscienze e promuovere un cambiamento. In questo senso svolge un ruolo decisamente importante nel determinare la traiettoria delle persone, delle masse, quindi del mondo intero. Proprio a causa della velocità con cui viene diffusa e recepita, la comunicazione per immagini, soprattutto se ‘sociale’, dovrebbe essere accompagnata da adeguati approfondimento e consapevolezza. Per come la vediamo noi, la fotografia sociale è racconto, analisi critica, riflessione: con coscienza prende una posizione e cerca di mostrare l’umanità agli uomini.

 

Quanto è importante la storia personale e collettiva che sta dietro ciò che viene fotografato nella capacità dell’immagine di veicolare un messaggio?

È ormai riconosciuto che le fotografie non mostrano mai la realtà, ma solo un punto di vista soggettivo. Detto questo, è chiaro che l’educazione e la sensibilità del fotografo siano fattori fondamentali nel determinare la capacità di una foto di informare ed emozionare. Bisogna aggiungere poi che ogni identità individuale è inevitabilmente influenzata dal contesto sociale e culturale in cui si forma e cresce. Così, nel Collettivo Fotosocial, le nostre esperienze personali si mescolano e si integrano per accrescere il potere espressivo di ogni racconto fotografico.

 

Quanto un fotografo deve essere coinvolto in ciò che vede e riproduce e quanto invece è necessario restarne al di fuori?

Non credo esista una risposta esatta a questa domanda. Direi che, generalmente, il lungo tempo e la passione richiesti per portare a termine un progetto di fotografia sociale si traducono spesso in un alto livello di coinvolgimento. Ogni approccio presenta vantaggi e svantaggi di cui potremmo parlare per ore. In realtà credo che la scelta di quanto lasciarsi coinvolgere dipenda in gran parte dall’indole del fotografo, da cosa intende comunicare e del perché lo vuole fare. Un’eccessiva ‘immersione’ rischia di renderci sempre più ‘assuefatti’ a quegli aspetti che inizialmente, da esterno, ci colpivano particolarmente, facendoci così diventare meno efficaci come mediatore tra la realtà osservata e quella da cui proveniamo. Tuttavia, sono il coinvolgimento e la partecipazione attiva a permetterci, nel tempo, di individuare le caratteristiche più nascoste e alcune sottili ma importanti sfumature che tendono normalmente a sfuggire allo sguardo comune. Ed è forse proprio questo, in fondo, a rendere il lavoro di alcuni fotografi davvero speciale. Comunque, che sia intimamente coinvolto o professionalmente distaccato, sarà dovere del fotografo essere il più chiaro e onesto possibile nel dichiarare al pubblico la sua posizione e il processo che l’ha portato ad adottare il suo personale punto di vista.



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