Arti Performative

Intervista ad Aureliano Amadei

Annagiulia Scaini

Aureliano Amadei ci parla del suo modo di raccontare, dal palcoscenico al grande schermo. Nato dalla collaborazione con Duccio Camerini per esistere in entrambe le forme, teatrale e cinematografica, “L’Arma” è in scena al Teatro Vascello fino al 12 maggio.

Aureliano Amadei: nome ormai noto tanto sulla scena teatrale quanto su quella cinematografica.

Debutta come regista a teatro nel 2001 con Unamunda di David Ives per continuare una parabola ascendente di successi, culminati con gli innumerevoli riconoscimenti ottenuti per il film 20 sigarette, tratto dal romanzo da lui scritto nel 2005 sull’attentato subìto a Nassiryia.

Ha solo poco più di quindici minuti prima di entrare in sala per la replica pomeridiana del nuovo spettacolo che sta portando a teatro in questo periodo, L’Arma, frutto di una collaborazione con Duccio Camerini. Quel quarto d’ora ha deciso di dedicarlo a Scene Contemporanee.

 

Teatro e cinema: molti autori e registi separano nettamente i due mondi, com’è il suo rapporto con queste due arti e quanto l’una influisce sull’altra nei suoi lavori?

Cinema e teatro sono senza dubbio due mondi diversi, non posso dire il contrario. Eppure sono due forme d’arte il cui connubio, se ben studiato, può permettere la realizzazione di un bellissimo spettacolo. Quella che percepisco io è, potremmo dire, una differenza di forma non di contenuto. Sono i mezzi e gli spazi a cambiare, non le emozioni da veicolare.

Parlando dello spettacolo che sta portando in scena in questi giorni al teatro Vascello. Com’è stato collaborare con Duccio Camerini? Com’è avvenuto il vostro incontro?

Io e Duccio ci conosciamo da tanti anni e il progetto di collaborare per uno spettacolo come L’Arma è nato, come spesso accade, durante una cena informale. Ero lì che gli parlavo del fatto di voler realizzare qualcosa insieme e lui mi ha subito proposto il testo dello spettacolo, convinto che fosse esattamente della tipologia che meglio si avvicinava a me come modo di pensare e alla mia regia. Aveva ragione.

L’Arma diventerà un film. Cosa ha influito maggiormente nella decisione di adattare il testo al cinema? È stata una decisione pregressa alla scrittura della sceneggiatura o la scelta è maturata in seguito, una volta ultimata la messa in scena teatrale? 

In realtà fin da subito, ancor prima di cominciare, il mio obiettivo principale, che poi rientrava nella proposta fatta a Duccio Camerini, era quello di mettere su uno spettacolo che avesse i requisiti giusti per poter passare dal palco allo schermo. L’Arma è stato concepito per essere in grado di fare proprio sia il linguaggio teatrale sia quello cinematografico. Adesso stiamo già preparando tutto per cominciare a girare. Terminate le repliche in teatro ci dedicheremo esclusivamente al film, anche se la nostra intenzione è quella di rimettere in scena lo spettacolo dopo la sua uscita.

A suo parere, qual è il punto forte di questo spettacolo?

Probabilmente il discorso in filigrana che sta dietro le azioni del personaggio interpretato da Giorgio Colangeli, il Padre. È un uomo che crede davvero di fare la cosa giusta quando abbandona tutti e porta con sé la bambina, isolandola dal mondo. Eppure, pensando di liberarla dai vincoli che impone la società, in realtà la rende prigioniera delle scelte che lui ha preso per lei. Per riassumere: il fare del male a qualcuno senza volere, nella convinzione di fare del bene.

Cosa le piacerebbe che lo spettatore maturasse durante e dopo la visione di uno spettacolo come L’Arma? 

Naturalmente una riflessione sul tema dell’identità letta in un’ottica contemporanea: identità in un mondo globalizzato, in un mondo che ci bombarda di notizie e che, non di rado, crea forti condizioni di disagio che ci fanno desiderare di scappare. Poi, vorrei che per un attimo lo spettatore in platea possa valutare la fattibilità di un’azione così radicale come quella di questo Padre… Vorrei che pensasse, per un brevissimo istante: “Potrei farlo anche io, dopotutto”.



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