Cinema

In Focus. Viaggio nell’Inferno Verde: Il Cannibal Movie Italiano

Vincenzo De Divitiis

Applausi a Toronto e a Roma. The Green Inferno di Eli Roth ha conquistato i festival ed uscirà a Settembre negli USA, un buon motivo per ripercorre la storia dei cannibal movie italiani.

L’ultima edizione del Festival Internazionale del film di Roma ha visto tra i suoi protagonisti indiscussi il regista statunitense Eli Roth con il suo ultimo film The Green Inferno, opera che omaggia in maniera esplicita e fiera il filone dei cannibal movies. Un’occasione per riportare in auge una brillante realtà del cinema di casa nostra molto bistrattata in patria ma, come accade a molto cinema di genere, apprezzata da tanti cinefili stranieri (tra tutti Tarantino) e che affonda le sue origini negli anni ’70 con i mondo movies, lavori di denuncia sociale a metà tra la finzione filmica e il documentario il cui titolo principale è Mondo Cane di Gualtiero Jacopetti.

Il primo ad inaugurare il filone è Umberto Lenzi con Il paese del sesso selvaggio (1972), opera nella quale i pochi elementi da film cannibali vengono presentati in una maniera ancora troppo velata e si mescolano ad un intreccio avventuroso con tanto di scene d’azione e storia d’amore tra il protagonista occidentale e un’indigena (interpretata da Me Me Lai, volto molto frequente dei cannibal).

Il maestro del genere, tuttavia, è Ruggero Deodato, autore di una trilogia che vede il suo picco nel cult controverso e famoso in tutto il mondo Cannibal Holocaust (1980). Il regista di origini potentine nel ’76 si affaccia per la prima volta all’universo cannibalico con Ultimo mondo cannibale. L’intreccio è quello tipico del filone: una spedizione di occidentali si avventura tra le foreste e si imbatte in un gruppo di primitivi avvezzi al cannibalismo. A differenza del suo collega Deodato inserisce atmosfere più cupe ed orrorifiche ma, soprattutto, ostenta la violenza e la rende più visibile con sequenze di forte impatto come le uccisioni di animali o la crudele immagine del neonato buttato nel fiume e dato in pasto ai coccodrilli.

La crudeltà e l’efferatezza rappresentano il fil rouge di tutti i principali film a tema cannibale e vengono portati all’eccesso dallo stesso Deodato nel suo film simbolo, Cannibal Holocaust, considerato un autentico capolavoro di tutta la cinematografia italiana ma allo stesso tempo preso di mira dalla critica “di regime” e dalle restrittive norme di censura. Un’opera disperata, scioccante, che estremizza le atmosfere truci create da Sergio Martino ne La montagna del dio cannibale (1978) e colpisce lo spettatore con immagini così realistiche tanto da generare l’accusa di essere uno snuff.

L’intreccio si divide in due parti dallo stile registico molto diverso tra loro. La prima metà segue il canovaccio classico con la consueta spedizione di uomini bianchi inviata nella foresta colombiana alla ricerca di 4 documentaristi scomparsi e lo spettatore assiste non solo a scene truculente, come la donna violentata con un fallo di pietra come punizione per l’adulterio e l’uccisione del topo muschiato, ma anche ad un’interazione fra popoli dalle culture diverse. Il vero capolavoro di Monsieur Cannibal (soprannome attribuitogli dai francesi ma mai digerito dal regista) è la seconda parte nella quale  viene introdotto per la prima volta l’espediente della VHS ritrovata, una tecnica ripresa vent’anni dopo da Daniel Myrick e Eduardo Sanchez nel loro mediocre The Blair Witch Project.

Deodato qui esaspera la sua vocazione per una rappresentazione realistica di scuola rosseliniana ed esprime la sua forte presa di posizione contro un certo tipo di giornalismo-spettacolo a caccia dello scoop a tutti costi ed un forte messaggio animalista ed ecologico. Messaggio lanciato attraverso le uccisioni di animali veri e le violenze perpetrate dai reporter ai danni delle popolazioni locali, immagini molto più efficaci di mille spot e appelli. L’obiettivo viene raggiunto in pieno dall’autore che anche per questo sarà costretto ad affrontare problemi con la giustizia e a vedere la sua pellicola censurata in Italia per diversi anni sulla base di una vecchia legge fascista contro la tortura delle cavie. Simili picchi di violenza saranno solo avvicinati due anni dopo da Lenzi (autore anche del discreto Mangiati Vivi!) con il suo Cannibal Ferox del quale ricordiamo la scena simbolo del taglio del cervello e dell’evirazione di Giovanni Lombardo Radice, citata anche da Roth in Hostel: Part II.

La trilogia arriva al suo atto finale nell’84 con Inferno in diretta che introduce alcune varianti. Nel film, infatti, ritroviamo le ambientazioni esotiche che fanno però da sfondo ad una crime story arricchita da ottime trovate splatter e gore e dalla capacità di Deodato di non disperdere il messaggio di forte critica ancora una volta verso il mondo del giornalismo ed il potere delle televisioni. La tendenza a fondere diversi generi era già stata mostrata da Antonio Margheriti in Apocalypse Domani (1980) nel quale gli antropofagi vengono inseriti all’interno di un contesto urbano e questa volta non sono più membri di tribù selvagge bensì soldati reduci dal Vietnam, elemento che contribuisce a dare una valenza di forte critica ad ogni forma di guerra. Dello stesso anno è Zombi Holocaust di Marino Girolami che crea un buon mix tra i classici cannibali e gli zombie, arricchendo un filone cinematografico che in Italia non ha mai sfornato grandi titoli, eccezion fatta per il capolavoro di Lucio Fulci Zombi 2.

Arrivando ai giorni nostri sono diversi i tributi da parte di registi stranieri: i più importanti sono Welcome to the jungle di Jonathan Hensleigh e soprattutto il succitato The Green Inferno di Eli Roth. Quest’ultimo aveva già manifestato la sua passione per il genere con la comparsata di Deodato nel suo Hostel 2 e offre una sua visione del genere fondendone gli stilemi classici con la sua proverbiale vena ironica, dando vita ad un film ricco di trovate geniali anche se impoverito di molti elementi splatter e gore come animali squartati e amputazioni



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