Cinema

In difesa di Django

Cristina Lucarelli

Un approfondimento in difesa di Django e dell’universo esteso di Quentin Tarantino.

Quando si parla di Quentin Tarantino si sa, lo spazio a disposizione per dire ciò che si vorrebbe è sempre poco. Una recensione non basta a semplificare la weltanschauung tarantiniana e ad esorcizzare gli spettri degli oscuri detrattori di turno che, ancora una volta, trovano nel maestro Quentin un Doppelgänger di stampo plagiario. A coloro che si cimentano in siffatte enunciazioni, chiarirei che anche uno come Stendhal fu inficiato del fregio di autore a causa del suo tomo di esordio. La querelle fu presto risolta: avrà pure copiato, ma lo ha fatto bene. E il resto delle proprie opere dimostra la sfida mentale nella quale si è cimentato: dare aria nuova a pagine ingrigite. Impresa ardua, direi. E lo stesso fa il film maker postmoderno, o addirittura ipermoderno per eccellenza, Tarantino ovviamente.

Allora “Be kind rewind”, siate gentili, riavvolgete il nastro, perché questo approfondimento esula dall’elenco comodo delle citazioni per guardare “oltre” lo schermo, al di là di ciò che è palese e di cui troverete in abbondanza navigando nel selvaggio web. Quentin parte da un contesto storico in parte “destoricizzato”, perché l’epopea di Django Unchained non si prefigge di raccontare la Storia, ma una delle storie che popolano gli anfratti cerebrali del proprio creatore. Sul filo di un rapporto di amicizia e comprensione, Django si scatena dal peso della schiavitù e ritrova il proprio status di uomo libero, anche se a colpi di pistola e a frustate. Il gioco imbastito dal regista è seducente più che mai: un equilibrio narrativo che non ti aspetti e che invece rende grandioso il film, differenziandolo, e di molto, dagli esordi narrativamente più complessi. L’enfant terrible di Hollywood è maturato, ma ciò non vuol dire smettere di divertirsi con lui, semmai farlo in modo diverso e più consapevole, interpretando meglio i suoi codici.

Che una svolta si stesse preparando era forse percepibile dall’ingiustamente sottovalutato Grindhouse – A prova di morte (2006), dove il gioco rutilante, ma autoironico, della citazione cinefila raggiunge livelli quasi parossistici e oltre il quale, probabilmente, era impossibile andare. Passando prima per Bastardi senza gloria, e ora per Django Unchained, si percepisce chiaramente il tentativo di rassicurare da una parte il pubblico dei tanti spettatori che amano riconoscersi e immedesimarsi nel suo “mondo dell’eccesso” e dall’altra l’esigenza di osare, di spingersi verso una struttura narrativa e linguistica più audace, meno controllabile e quindi necessariamente poco riconoscibile. Quest’ultimo film appare quindi come il tentativo di cercare un equilibrio tra queste due istanze, tra ciò che vuole il pubblico e ciò che questo autore decide di raccontarci. Il suo western non è solo “puro” western, semmai “puro” Tarantino, la quintessenza del suo stile e del suo percorso vocazionale. Restano intatti i temi più autoreferenziali e più cari allo spettatore aficionado, quelle strategie formali che mettono in scena “una qualche parte del Texas nel 1858”, ma che in verità parlano di un mondo parallelo che non sa che in quell’anno non esistevano birra, occhiali da sole e dinamite. Quelle stesse strategie che mostrano una violenza che in realtà non è mai fine a se stessa, non è mai erotizzazione e autocompiacimento, casomai giustizia goliardica e vendetta fracassona. L’universo di Django è in perenne collisione: scontro di corpi, di colori e anche di musica. Perché la soundtrack ha un valore essenziale nel delineare e anche delimitare la corsa dello schiavo verso un happy end a denti stretti: Morricone ed Elisa, Bacalov, Wagner, ma anche Johnny Cash e Richie Havens, non sono solo pilastri sostenitori di dettagli, piani medi e spettacolari inquadrature dall’alto, ma contribuiscono a raccontare le immagini con il loro specifico linguaggio, a volte del tutto anacronistico.

Le scenografie sono semplicemente maestose, grandiose, e rendono appieno il gusto dell’epoca. La sceneggiatura, così come la regia, è impeccabile, non vi è mai un calo di tensione o un momento di stasi. Un matrimonio destinato a perdurare per le due ore e quarantacinque minuti di visione che disegnano, con maestria sopraffina, la personalità istrionica del Dr. Schultz, il dramma e il riscatto di Django (ricordate, la D è muta!), la spietatezza di Candie e la riverenza crudele di Stephen. Sono l’eleganza e la ponderazione classicheggiante i diktat registici di quest’ultimo capolavoro, veicolo di una denuncia sociale e storica, con buona pace di Spike Lee e delle sue critiche. Infrangendo l’ipocrisia del politically correct linguistico, Tarantino si schiera ancora una volta dalla parte dei deboli, degli oppressi e fa fuori, con delirante sagacia, gli oppressori. King Schultz non può resistere al ricordo nauseante di un uomo sbranato dai cani e noi possiamo forse resistere al desiderio di applaudire di cuore a Quentin? Qualcuno l’ha definito manieristico questo nuovo Tarantino, ma io preferirei etichettarlo come un istrione di classe, il cui tratto distintivo è l’eccesso in tutte le cose. E se togliessimo l’eccesso alla sua scrittura, taglieremo la sua vena autoriale: lui è così, prendere o lasciare. E noi vogliamo prenderlo.



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