Musica

Illachime Quartet // Soundtrack for parties on the edge of the void + intervista a Fabrizio Elvetico

Maria Ponticelli

Soundtracks for parties on the edge of the void è in ordine d’arrivo l’ultimo disco dell’ensemble partenopeo Illachime Quartet ed il primo dopo una pausa nell’attività produttiva del gruppo durata qualche anno. Il progetto Illachime nasce nel 2002 dall’incontro tra il musicista e compositore Fabrizio Elvetico ed il chitarrista Gianluca Paladino, a cui si aggiungono nel tempo il violoncellista Pasquale Termini ed il batterista Ivano Cipolletta. In meno di dieci anni dalla sua nascita, il quartetto da vita a ben tre album e a numerose collaborazioni con nomi prestigiosi della scena internazionale punk rock, come Graham Lewis dei Wire e Mark Steward dei Pop Group ma anche con artisti del calibro del jazzista italiano Salvatore Bonafede. I riconoscimenti non tardano ad arrivare e nel 2015, in occasione dell’uscita del volume “Solchi Sperimentali Italia”di Antonello Cresti, quello del gruppo compare tra i nomi più rilevanti della scena musicale sperimentale in Italia.  È in tale occasione che il quartetto viene invitato a suonare presso l’ “Ex Asilo Filangieri”, fervido polo culturale collocato nel cuore della città di Napoli, ed è qui che viene concepito il nuovo album che ha visto la luce nello scorso mese di giugno e che da ulteriore conferma dell’identità sfuggevole e porosa del gruppo, aperto a numerose possibilità di sperimentazione e pronto a sorprendere con decise incursioni in contesti musicali diversi e apparentemente lontani fra loro. Soundtracks for parties on the edge of the void è un disco affollato, proprio come può esserlo una festa in cui suonino più di venti persone spaziando da un genere all’altro e da un mood all’altro anche all’interno degli stessi pezzi. L’album è infatti suddiviso in due sezioni: la prima racchiude cinque pezzi per l’appunto denominati cinque pezzi facili (ispirata all’omonima pellicola cult degli anni 70) in cui vengono raccolte alcune colonne sonore degli Illachime composte per film e documentari ed una seconda parte in cui, con gli uneasy pieces, viene fuori l’anima corale del lavoro che si esprime attraverso momenti tratti da sessioni di improvvisazione, realizzate grazie al contributo di ben diciannove artisti e registrate all’interno del teatro de l’Asilo. La pluralità è quindi l’approccio fondante dell’album, insieme al profilo curvo del suo andamento up-down che si delinea nel lento scivolare dalle sonorità jazz dell’easy side a quelle più scure e indefinite dell’uneasy.

Nell’intento di afferrare maggiormente lo spirito del lavoro e di addentrarci negli anfratti della sua vocazione, incontriamo Fabrizio Elvetico: nel disco  al piano, piano elettrico, al basso e all’elettronica.

Prima che cominci l’intervista scambiamo poche parole sugli Illachime e sull’identità ibrida del gruppo.  Dalle parole di Elvetico è possibile percepire il profondo senso di libertà che s’intuisce dal modo in cui egli fa appello alla propria indipendenza di musicista, ovvero alla lontananza che il quartetto ha posto tra se stesso e qualsiasi forma di vincolo che possa impedire di muoversi da un genere all’altro e che spinga in direzione della ricerca di un purismo non-sense contro la stessa natura indomita, senza principio e senza fine, della musica.

È con questa premessa quindi che cominciamo a parlare di Soundtracks for parties on the edge of the void.

Il disco si compone di una prima sezione contenente quelli che avete soprannominato “easy pieces”, e di una seconda sezione che, in maniera speculare, propone gli “uneasy pieces”. Qual è stato il motivo che vi ha fatto decidere di soprannominare così i due diversi momenti del lavoro?

Si tratta di una sorta di percorso, il titolo stesso induce ad immaginarlo. I primi cinque pezzi sono stati scritti per accompagnare delle immagini e sono stati concepiti attraverso un lavoro di composizione, gli altri nascono da sessioni di improvvisazione: da qui il carattere duale del lavoro. Questo doppio binario ci ha suggerito quindi un percorso parallelo che parte da un momento attraversato da una sostanziale positività fino ad arrivare all’esatto opposto, e cioè ad un’atmosfera più cupa che fa inevitabilmente riferimento alla situazione attuale caratterizzata dalla paura e dall’incertezza verso il futuro. Con estrema consapevolezza il disco vuole metterci di fronte a questo. C’è da dire però che i toni scuri appartengono in qualche modo anche alla prima parte del disco ma si avvertono in sottotraccia. Questo aspetto è venuto fuori attraverso la scrittura dei fiati, è stato quello il momento in cui dei pezzi  concepiti leggeri sono diventati più tesi; è stato come mettere una pennellata “Illachime” all’intero lavoro. Molte persone cha hanno ascoltato il disco hanno infatti trovato più impegnativa questa prima parte che non la seconda e la ragione è da ricercare nell’intreccio di sonorità ma soprattutto nella dissonanza che qui entra in contrasto con la leggerezza. Le due facce del disco sono quindi diverse ma in qualche modo anche complementari.

 

“Il rapporto tra l’ ex Asilo Filangieri e gli artisti  ha assunto col tempo un valore di autenticità nel senso che in questo contesto è stato possibile far arrivare alle persone, agli  artisti in primis, che c’è anche un altro modo di essere ripagati e che è quello del ritorno in termini di relazioni, del fare in comunità e fare bene.”

 

È un album corale in termini di partecipazione artistica ma è anche stato prodotto tramite un’esperienza di crowfunding. Cosa, secondo te, spinge le persone a voler prendere parte alla nascita di un lavoro artistico?

In relazione a questo aspetto credo che il fatto che l’album sia stato prodotto all’interno de l’Asilo abbia giocato un ruolo fondamentale. Il rapporto tra l’ex Asilo Filangieri e gli artisti  ha assunto col tempo un valore di autenticità nel senso che in questo contesto è stato possibile far arrivare alle persone,agli  artisti in primis, che c’è anche un altro modo di essere ripagati e che è quello del ritorno in termini di relazioni, del fare in comunità e fare bene. Il fatto quindi che l’Asilo fosse implicato in tutti gli aspetti della produzione di questo lavoro è stato un valore aggiunto ed ha costituito uno stimolo perchè molti artisti decidessero di collaborare alla realizzazione dell’album.

È stato definito un album “sound free form”perchè nasce da un particolare tipo di ricerca che Illachime conduce da anni e che si esplica in termini di contaminazioni, fusioni e sovversione dei canoni. Se oggi possiamo concepire un album di questo tipo, quale sarà il prossimo avamposto della ricerca domani?

Beh, si tratta di una risposta che posso dare solo per me stesso ed in relazione a questo progetto. Credo che non sia più tempo di parlare di ricerca musicale facendo esclusivamente riferimento all’elaborazione di strutture complesse, anzi, da questo punto di vista ritengo che la complessità non abbia più un valore generativo. Da profondo conoscitore del filosofo e musicologo tedesco Adorno posso affermare che la sua teoria sulla complessità, e su quanto essa fosse inevitabile per esprimere al meglio un’ esigenza di denuncia verso il mondo alienato e alla deriva di inizio novecento, costituisca ancora oggi un parametro di riferimento per molti musicisti all’interno della ricerca sperimentale. Molti artisti contemporanei sentono infatti esaurirsi il proprio ruolo in una ricerca musicale che contempla se stessa nel raggiungimento del noise estremo, ad esempio, prestando attenzione a non confondersi con altro ed a preservare una sorta di purezza. Trovo che tutto ciò sia superato e che non abbia più nessuna forza.

 

“Il disco nasce quindi da uno sguardo in avanti, reso in un discorso comunitario ben riuscito ma guarda anche in maniera nostalgica all’indietro e ad un passato che, confrontato con l’oggi, diventa mitologico.”

 

A partire dal primo pezzo dell’easy side e fino all’ultimo dell’uneasy, si assiste ad un lento degradare verso sonorità più turbate: è questa la vera anima del gruppo?

Soundtracks for parties on the edge of the void è sostanzialmente un disco di resa, ed in realtà anche il precedente “Safe” lo era ma in quest’ ultimo il sentimento di declino è reso in un insieme di contrasti ed è anche accompagnato da un’idea di nostalgia: penso ad esempio ai primi pezzi in cui ci sono tanti riferimenti alla musica degli anni settanta, quella che si ascolta soprattutto nei film di quel periodo, e il fischio della “easy 1” d’altra parte rende bene il richiamo. Il disco nasce quindi da uno sguardo in avanti, reso in un discorso comunitario ben riuscito ma guarda anche in maniera nostalgica all’indietro e ad un passato che, confrontato con l’oggi, diventa mitologico. L’immagine che c’è sulla copertina del disco è in questo senso emblematica, si tratta della foto di un interno in cui è possibile scorgere un riflesso sul pavimento; esso fa riferimento all’idea del doppio ma anche del rimando da una cosa all’altra, ad esempio dal jazz che interagisce col punk, con la tensione o la rinuncia. Tutto ciò genera interessanti corto circuiti.

Ritieni che l’ispirazione conservi la propria autenticità soltanto in un contesto di improvvisazione?

È difficile dirlo, si tratta di pratiche secolari. Composizione e improvvisazione si sono sempre intrecciate in una dinamica di “combattimento” tra il tentativo di cristallizzare un’ispirazione e quello di lasciarla fluida. Per quanto mi riguarda posso dire che col tempo sono giunto ad una fase di stanca relativamente all’aspetto autoriale del mio lavoro ed è per questo motivo che ho preferito dedicarmi ai momenti di  ensemble qui all’Asilo, dove l’idea politica ed umana del senso di comunità prende il sopravvento rispetto al bisogno di “metterci la propria firma”. Per questa stessa ragione ho sempre preferito suonare con delle formazioni che fossero caratterizzate da un’interconnessione tra i musicisti piuttosto che esibirmi in dei solo. È inevitabile che in tal modo ci si ritrovi in una relazione di orizzontalità tra gli artisti, ed è automatico quindi che ciò dia luogo a fenomeni di improvvisazione. Anche quando mi capita di scrivere qualcosa di mio, lascio poi che questa venga “ricreata” nell’interazione che inevitabilmente si genera durante una sessione impro. Il disco stesso nasce su questo contrasto, se si prende ad esempio la “easy 5” è possibile capirlo in maniera più chiara: qui la ritmica è riprodotta con un loop alienato e in maniera del tutto fedele alla scrittura originale ma i fiati sono stati lasciati liberi di creare, seppur all’interno di determinati parametri. L’idea, per concludere, è quella di partire da qualcosa di dato e di reagire ed aprirsi poi a situazioni sempre cangianti.

C’è molta eterogeneità all’interno del disco ma anche molte variazioni di tema all’interno di uno stesso pezzo come in “game over” in cui c’è un deciso intervento creativo sul materiale iniziale dell’espsosizione. Proprio pensando al titolo di questa traccia, c’è un pezzo in coda dove sembra a un certo punto di poter avvertire il sound effect di un “game over” riprodotto in una sequenza ritmica di sottofondo; è un effetto voluto? 

Premetto che il pezzo in coda è una post-track ed è tratta da un’esperienza di sonorizzazione dal vivo di un film Elvira Notari, una regista salernitana degli anni venti. Per rispondere alla domanda sulla percezione sonora di un autentico “game over”, sento di poter affermare che molte cose nascono dal caso, ed io credo tantissimo al potere del caso nella musica, anzi, molto spesso mi sono posto il problema di alimentarlo. A volte, per riprendere quel che dicevamo a proposito dell’improvvisazione, anche suonando un pezzo composto in precedenza vengono fuori dei fenomeni tonali che, pur se inseriti in un mood prestabilito, non t’aspetti perchè appaiono completamente asincroni ed ogni volta nuovi e diversi rispetto all’insieme. Il caso ha quindi un potenziale generativo enorme.

A “Game over” è affidata la chiosa del disco: possiamo parlare di una disfatta generale oppure resta ancora qualcosa da salvare?

Non so. So però che bisogna resistere, e per farlo bisogna cominciare dalle relazioni tra le persone; è necessario farlo per opporsi sistematicamente alle dinamiche del mondo intorno e bonificarsi da esso. Forse questa piccola ghost track intende comunicarci, e invitarci, a fare ciò.



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