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“Faccio recitare Eduardo in italiano perché la grammatica della comicità non c’entra con il dialetto”. Intervista a Gianfelice Imparato

Renata Savo

Firenze, ultimi giorni di settembre. Al Teatro Niccolini, un gruppo di giovani attori provenienti da tutta Italia sta gestendo lo spazio riaperto nel 2016 dopo vent’anni. È un’idea della Fondazione Teatro della Toscana, che ha scelto di istruire attraverso gli strumenti offerti dalla scuola “Orazio Costa” attori capaci di fronteggiare le numerose difficoltà del mestiere, dall’organizzazione, alla produzione, alla comunicazione, un po’ come aveva fatto in Francia negli anni venti del secolo scorso la scuola del Vieux Colombier di Jacques Copeau, formando attori-artigiani.

Sul palcoscenico del Niccolini Francesco Grossi, Filippo Lai, Athos Leonardi, Claudia Ludovica Marino, Luca Pedron, Laura Pinato, Nadia Saragoni, Erica Trinchera e Lorenzo Volpe stanno provando a recitare Eduardo, il grande Eduardo De Filippo. Sarebbe superfluo aggiungere che è uno degli autori teatrali napoletani, e in generale italiani, del Novecento più apprezzati al mondo. Sono guidati nell’impresa, che li ha portati a calcare la scena dal 2 al 7 ottobre con Eduardo per iNuovi, da Gianfelice Imparato, l’attore a cui oggi è affidato, in assenza di eredi De Filippo all’interno della Elledieffe – La Compagnia di Teatro di Luca De Filippo diretta da Carolina Rosi, il compito delicato e importante di incarnare i ruoli che erano stati interpretati da Eduardo e, dopo di lui, dal figlio Luca, scomparso tre anni fa. In questi mesi, Gianfelice ha assunto su di sé anche un’altra responsabilità: insegnare a questi allievi che cosa sia la vera comicità. Quella che nasce dalla drammaturgia e che nella scrittura di Eduardo non ha nulla a che vedere con il dialetto, perché prescinde da esso. Tra campani – Gianfelice è di Castellammare di Stabia, chi scrive è di Amalfi – ci intendiamo velocemente. Così, in occasione del debutto dei quattro atti unici di Eduardo recitati da iNuovi in italiano al Niccolini, non abbiamo potuto far a meno di chiedere a Imparato che cosa ne pensasse di chi in scena si ostina a scegliere di recitare testi in dialetto pur non avendo vissuto nella regione in cui quel determinato dialetto si parla. Dal dialogo sono emersi suggerimenti utili ad approcciarsi al napoletano, e molte altre curiosità.

Il progetto iNuovi riprende un’antica modalità di fare teatro, inteso come processo di lavoro dell’attore-artigiano, che si occupa di tutti i mestieri del teatro, non solo di quelli artistici, ma anche dell’organizzazione, della produzione e della comunicazione. In particolare, viene in mente la scuola del Vieux Colombier, e dei Copiaus dopo, fondata da Jacques Copeau intorno agli anni venti del Novecento. Eppure in questo progetto l’attore viene definito “nuovo”. Come mai?

Quella dell’attore che si forma a trecentosessanta gradi è stata una scelta della Fondazione Teatro della Toscana, che ha affidato la gestione di un piccolo gioiello di spazio come il Teatro Niccolini ai giovani che si formano nella loro scuola [Corso per attori “Orazio Costa”, ndr]. Si chiamano iNuovi perché nuovo è il modo di intendere questo lavoro e perché per molti decenni, complice una cattiva televisione, è invalsa la convinzione che per fare questo mestiere non fosse poi così necessario impararlo. E invece è un mestiere come tutti gli altri, e sì, occorre impararlo e bene. La scelta di formare attori validi in ogni aspetto di questo lavoro trovo che sia molto bella e utile, perché mette di fronte i ragazzi davanti un ampio spettro di possibilità, dando modo di confrontarsi anche con altre competenze su cui investire nel futuro, al di là della carriera artistica. Perciò credo che consegnare a questi giovani allievi il teatro si possa definire un’operazione virtuosa.

“Eduardo per iNuovi”, prove. Foto di Filippo Manzini

È andato in scena dal 2 al 7 ottobre in prima nazionale “Eduardo per iNuovi”, al Teatro Niccolini di Firenze: gli attori formati nell’ambito di questo progetto hanno portato in scena quattro atti unici di Eduardo De Filippo. Me ne può parlare, in breve?

Io proposi questo laboratorio sulla scrittura comica, ovvero sulla comicità che nasce dalla drammaturgia. L’idea fu accolta dal Teatro della Pergola e così a maggio ho fatto un seminario con questi ragazzi, con cui ora abbiamo provato l’allestimento dei quattro atti unici. Avendo voluto infatti affrontare il tema della comicità che scaturisce dalla drammaturgia, ho pensato naturalmente a Eduardo, ed essendo un progetto anche co-prodotto dalla Compagnia di Luca abbiamo avuto il permesso per presentare i suoi atti unici. Ho lavorato su questo tema perché oggi i giovani non conoscono la comicità che nasce dalla scrittura, ma solo, o per lo più, la comicità dello sketch televisivo o la commedia impropriamente chiamata “brillante”, che altro non è che una serie di barzellette e sketch tenute insieme da un fil rouge. Ho scelto tre atti unici – Pericolosamente, I morti non fanno paura e Amicizia – e poi il primo atto di Uomo e galantuomo, che nacque come atto unico, ma poi Eduardo scelse di trasformarlo in commedia in tre atti. È un capolavoro di drammaturgia comica, che, come tutta la drammaturgia comica di Eduardo d’altra parte, nasce da un’osservazione cinica e fredda della realtà.

 

Diciamo la verità, per noi campani è alquanto sgradevole sentire a teatro attori non napoletani che parlano in un incerto dialetto napoletano. Che cosa ne pensa Lei, meglio rinunciare all’impresa o il napoletano si può imparare, in qualche modo? Se sì, quali sono i suoi consigli?

Personalmente, ho scelto di far recitare Eduardo in italiano per far capire che la grammatica della drammaturgia comica non è legata a un dialetto, ma è universale. E c’è un secondo motivo: far capire, se ancora ce ne fosse bisogno, che Eduardo non è certo un autore relegabile a un ambito regionale. E poi, sì, il terzo motivo è che gli attori provengono da regioni molto diverse d’Italia. Far parlare loro un napoletano forzato o innaturale non sarebbe stato il caso. Se io per esempio iniziassi a parlare pugliese come fanno alcuni comici diventerei ridicolo. Il dialetto fa facilmente inciampare lo spettacolo nella “macchietta”. Il comico, per fortuna, è un’altra cosa.
Chi vuole avvicinarsi al napoletano scoprirà che il napoletano è una vera e propria lingua, con una sua dignità, e che spostandosi anche solo di due chilometri nella provincia si sentono accenti diversi. Io provengo da Castellammare di Stabia, e quando feci il primo lavoro nel lontano 1976 cominciai a rendermi conto, già dalla lettura, con Assunta Spina di Salvatore Di Giacomo, delle sensibili differenze. Ho dovuto imparare il napoletano facendo pratica con autori classici napoletani, da Di Giacomo a Viviani a Eduardo. Con pochi chilometri di distanza cambiano, a volte, non solo la pronuncia, ma persino un termine. La lingua in provincia si evolve molto più lentamente che in città, perché i contatti con l’esterno sono minori, soprattutto nelle province montane, nelle zone più remote. Anche in alcune zone interne della Costiera Amalfitana si sentono pronunciare parole che appartengono a un napoletano arcaico, ma che a Napoli, per esempio, non si usano più.

 

Paradossalmente, quindi, c’è più napoletano in provincia che a Napoli?

Sì, il napoletano di oggi è corrotto. Basta vedere l’orrore dei ragazzi che scrivono in napoletano, che scrivono nel modo in cui sentono il suono. Lo stesso napoletano usato nella scrittura di Eduardo è un napoletano edulcorato, perché le opere dovevano comunque essere fruite da un pubblico più ampio, non soltanto napoletano. È un napoletano colto, dove si trova ancora l’uso del condizionale, che si è assolutamente perso in seguito, nel napoletano attuale.

 

Sono trascorsi quasi tre anni dalla scomparsa di Luca. Qual è il ricordo più bello che le viene in mente, e come oggi si sente a far parte della sua compagnia ora che non c’è più?

Di ricordi belli con Luca ce ne sono tanti, abbiamo fatto tanti lavori insieme, anche non continuativamente, a cominciare dalla sua prima apparizione con la sua compagnia fondata all’inizio degli anni ‘80, quando si sciolse quella di Eduardo: andammo in scena proprio alla Pergola di Firenze. Tra di noi c’era un rapporto di stima e di affetto, e insieme ci divertivamo. Luca era una persona amatissima, gentilissima, ma anche molto precisa e meticolosa sul lavoro. Teneva alla dignità, al decoro, della compagnia. Ora è sbagliato dire che io mi trovi al suo posto. Di fatto mi trovo a prendere i suoi ruoli nelle commedie: l’emozione all’inizio c’era ed era dovuta al pensiero che la sostituzione sarebbe stata temporanea; invece, purtroppo, non è stato così.

 

Quale futuro si prevede per la compagnia di Luca De Filippo?

La compagnia di Luca oltre che dei suoi spettacoli si sta attivando su altri fronti, occupandosi anche di produrre nuove realtà, sia drammaturgiche sia attoriali. In particolare, stiamo elaborando nuovi progetti da mettere in campo in futuro dopo Questi fantasmi. Non ti pago, invece, per il momento ce lo teniamo come jolly, e quando si trova l’occasione di metterlo in scena lo riprendiamo.

 

Immagine di copertina: prove di”Eduardo per iNuovi”. Foto di Filippo Manzini



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