Arti Performative

Emma Dante // La Scortecata

Maria Ponticelli

È passato dal palco del Teatro Bellini di Napoli La Scortecata, ispirato alla fiaba La vecchia scorticata, tratta da Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile e qui reinterpretata dalla regia di Emma Dante. La Scortecata è una produzione del Teatro Biondo di Palermo che ha debuttato nell’ambito del Festival dei Due Mondi di Spoleto nel 2017 ottenendo numerosi consensi. La Dante fa sua la fiaba di Basile, letterato napoletano che per primo ha utilizzato il genere fiabesco come forma di espressione popolare, ed in questa appropriazione rivisita alcuni elementi chiave della narrazione. La vicenda narra infatti di due anziane sorelle imbruttite dall’età avanzata e da un grumo di rimpianti dovuti a occasioni sfuggite. Vivono nella mal sopportazione reciproca, data da un’eterna convivenza nell’illusione dell’incontro con l’amato atteso da una vita. Un giorno questa monotonia viene interrotta dal corteggiamento di un re che, come Ulisse con Circe, rimane ammaliato dal canto di una delle due e chiede di incontrarla ignorandone l’identità. Le due sorelle quindi riescono a trovare il modo di nascondere al re la loro apparenza non più acerba fino a quando, durante un incontro amoroso con la minore delle due, il sovrano non si accorge dell’inganno e scaraventa l’anziana donna dalla finestra. Quest’ultima riesce però a salvarsi e viene consolata da una fata che, avendone compassione, la trasforma in una giovane fanciulla di cui il re si innamora e che suscita le invidie della sorella la quale, per compararne la bellezza, chiede di essere scorticata perché la pelle secca e raggrinzita venga sostituita da quella nuova.


La regista palermitana elimina l’elemento della rivalità tra le due sorelle collocandole insieme nella condivisione di una sorte poco fortunata e sceglie di far interpretare a due uomini il ruolo delle protagoniste, Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola che con fare necessariamente sgraziato vestono le sottane lise delle anziane sorelle Rosinella e Carolina. I pochi elementi scenici presenti (curati dalla stessa regista, così come i costumi) costituiscono la scenografia essenziale per un atto unico dove tutto è affidato ai dialoghi delle due, attraverso cui si sviscera l’intera drammaturgia. L’incontro stesso con il re è infatti un accadimento al limite tra fantasia e realtà, sono le due donne che illudono se stesse e il pubblico, di un reale tête-à-tête col sovrano, salvo il rivelarsi poi capaci di spingere talmente oltre la fantasia da riuscire a trasformare casa, inscenare travestimenti, e predisporre il tutto come se questo avesse davvero luogo. La vera innovazione che la rivisitazione drammaturgica della Dante dà all’intero spettacolo risiede nel fatto che i continui battibecchi tra le sorelle, conditi da turpiloqui e prese in giro, nascondono in realtà la tenerezza tra le due, che si esprime soprattutto nelle premure della sorella maggiore, Rosinella, nei confronti di Carolina. È Carolina che all’inizio dello spettacolo recita i versi di Basile invocando lo scorrere veloce del tempo perché l’incontro con l’amato avvenga quanto prima, ed è la stessa Carolina che sul finire, stanca dei travestimenti e delle messe in scena, recita con disincanto gli stessi versi, invocando stavolta la morte come unica soluzione capace di liberarla dall’ipocondria legata ad un corpo decadente ed un destino ineluttabile. Rosinella, dal suo canto, è ancora una volta accanto alla sorella ad accoglierne l’ultima estrema richiesta tanto bizzarra quanto agghiacciante, perché rivela a sorpresa l’amarezza che giace sotto un’apparente esilaranza. Carolina chiede di essere letteralmente scorticata, fino a quando le sue carni sanguinanti non riveleranno una nuova pelle, una nuova vita, foriera di numerose possibilità. La rappresentazione si chiude quindi sulla scena finale dei due corpi seminudi sul fondo, illuminati come in un chiaroscuro caravaggesco e con le carni sudate sotto il riflesso della lama pronta ad abbattersi su Carolina in un estremo atto salvifico. Il riso si piega in ghigno.
Ciò che connota lo spettacolo, riconoscendogli una forte pregnanza identitaria, è di certo la musicalità che scaturisce dalla metrica del dialetto napoletano, unica nel suo essere cadenzata da esatti contrappunti e ritmi definiti; ma il retrogusto amaro, di una rappresentazione grottesca che rivela in realtà un sostrato di malinconia e lucida consapevolezza, colloca inevitabilmente questo lavoro alla latitudine di una città dalle forti contraddizioni, che dal seicento ad oggi non hanno perso vigore. E che sembrano dire fortemente l’allegria, e insieme la disperazione, dell’esistenza.



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