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Intervista a Silvia Calderoni, performer-immagine dei nostri tempi

Renata Savo

Esiste un teatro-immagine, ed esiste un performer-immagine che con il primo non ha nulla a che vedere. Presenza forte e magnetica, che si auto-rappresenta in modo assoluto. Naturale, ma risonante.

Silvia Calderoni è una di queste: una performer-immagine dei nostri anni. Ha mosso i suoi primi passi dentro l’ambiente teatrale nel 1998, attraverso l’incontro con Pietro Babina di Teatrino Clandestino e un workshop da lui curato. Giovane icona dei Teatri 90, da allora ha militato tra i più importanti gruppi teatrali di ricerca a cavallo tra i due millenni, primo fra tutti il Teatro Valdoca di Cesare Ronconi, per poi approdare ai Motus nel 2006: un vero colpo di fulmine, per lei e per i due direttori artistici Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, che scelsero il suo corpo androgino e quasi ascetico per un video e una performance dedicata a Beckett, intitolata a place. [that again].

Il 2015 è l’anno di MDLSX: un debutto al festival di Santarcangelo dei Teatri e un tour inarrestabile che registra ovunque il sold out. MDLSX appare come l’intima confessione allo “specchio” (o per meglio dire, alla webcam) di un corpo in bilico fra possibili identità, in cerca di un’autentica affermazione, e vira dal presunto autobiografismo a una riflessione critica e più profonda sulla libertà di genere.

Abbiamo sentito Silvia Calderoni per parlarci di questo spettacolo che in qualche modo le si sovrappone, potrebbe coincidere in molti punti con la sua vita. Al termine dell’intervista, la sua voce si spezza, commossa, nel ricordo di Sandra Angelini, molto più di un’anima e portavoce storica della compagnia: «Alla fine di MDLSX ogni sera mando questo bacio… e lo mando a lei».

 

All’alba dei 35 anni, un sommo poeta avrebbe detto che ti trovi “nel mezzo del cammin di nostra vita”. Per il sistema teatrale sei ancora tra i “giovani”?

Da un punto di vista teatrale ormai non sono più così giovane. Il mio primo laboratorio di teatro che ho fatto l’ho fatto a quattordici anni. Quindi sono vent’anni che faccio teatro. Da un punto di vista di esperienza sono una “super trentacinquenne” e non penso di essere “nel mezzo del cammin!”. Sai, ci pensavo proprio di recente: “Sono vent’anni che faccio questa cosa!”. Sembra tantissimo, che non riesco neanche a quantificarlo su una linea temporale, anche perché non è un lavoro che si sposta temporalmente, ma è un’esperienza legata alla vita, quindi è più un grafico di tre dimensioni o di puntini nello spazio. Non riesco a utilizzare il tempo come un’unità di misura rispetto a quello che faccio. Per questo che forse l’età non è ciò che va a determinare, poi, l’esperienza rispetto al lavoro in sé.

Com’è cambiata la tua vita dopo aver vinto il Premio Ubu nel 2009? Quanta fiducia dovrebbe portare nel sistema dei premi chi oggi si affaccia al teatro?

Rispetto a questa cosa dei premi sono un po’ scettica, ma non sono totalmente contraria, non verso i premi in sé. Di certo sono contraria al meccanismo dei Premi che strumentalizzano i social e quindi che mettono in gioco un meccanismo di “chiamata ai voti” che trovo terribilmente volgare. Per quanto riguarda l’Ubu, c’è una nostalgia dietro a quel premio, una decadenza che trovo anche meravigliosa. Non penso che sia una variabile che possa cambiare strettamente l’andamento delle cose o la carriera rispetto a questo lavoro, soprattutto nell’ambito in cui mi muovo io. È un riconoscimento, è qualcosa che risuona e ancora dopo sei anni (poi ho vinto “Under 30” non è neanche un Ubu troppo importante… ) continua a risuonare, anche solo per il fatto che ne stiamo ancora parlando io e te: già questo è qualcosa. Non penso che sia fondamentale. È bello che esista, ma non penso che faccia la differenza, e credo che nessuno dell’ambiente in cui siamo ambisca a quello. L’Ubu porta questo romanticismo, questa nostalgia che ti stringe un po’ il cuore… sembra più un funerale americano, ecco, che una premiazione!

Parliamo di MDLSX. E’ una sorta di autobiografia esposta. Credo sia un approdo perfettamente coerente rispetto ai tanti “moti” della compagnia. Prima la meta-fiction, poi la piega documentaria, per arrivare, infine, all’autobiografia, a quella che Hans Thies Lehmann definisce come l’irruzione del reale, l’utilizzo di materiali personali preesistenti, che appartengono a una materialità extraestetica. Quando ho visto lo spettacolo quest’estate al Festival Drodesera per un attimo ho pensato che la ricerca dei Motus fosse giunta al capolinea, perché la ricerca di questa esposizione della realtà è come se avesse incontrato una sua piena evoluzione e realizzazione. Tu come inquadreresti MDLSX rispetto a questo percorso?

Allora, due-tre cose: intanto, lo spettacolo si pronuncia “M, D, L. S, X”, no “middlesex”! E c’è una differenza sostanziale. È qualcosa di impronunciabile? È una traduzione? Un codice fiscale? È una serie di consonanti messe una di fianco all’altra che naturalmente tu tendi a pronunciare in un modo e altri tendono a pronunciare in un altro. Per quanto riguarda l’aspetto autobiografico penso che ci sia stato un nodo tra Nella tempesta, o comunque nel periodo di lavoro su La tempesta, e The Plot Is The Revolution. Nel momento in cui in scena c’è stato questo incontro tra Judith Malina e me. In quel punto si è toccata molto di più l’autobiografia, parlando strettamente di Judith che in MDLSX, dove in realtà l’autobiografia ti viene automatica, è lo spettatore a trovarla. Non c’è una sola parola biografica nello spettacolo, non c’è niente di biografico. L’unica cosa biografica è il materiale video. Quindi, cosa accade? C’è uno spostamento ancora ulteriore rispetto a del lavoro biografico o autobiografico. Si è già fatto un altro passaggio, la biografia è stata spostata…

Lo spettatore pensa che è di te che si stia parlando, al di là del romanzo di Jeffrey Eugenides!

Questa è la cosa meravigliosa, questo è il teatro. È esattamente questo il teatro: il fatto che lo spettatore incarna le parole dette con l’attore. Ecco, il portato biografico c’è: il mio portato di famiglia, il mio portato biografico e tutta la parte dei video sono cenci di spettacoli di Motus, riprese che abbiamo fatto negli anni e che non sono mai state utilizzate. Tutta la videografia, polverosa, non è mai uscita, sia i miei video di famiglia sia tutte le parti in cui io ho dai 22 anni in su. Tutte le parole, il racconto, la parte recitativa, lì non c’è nulla, neanche una sola riflessione mia al suo interno. È tutto un cut-up, e questa è stata una scelta molto forte. Un cut-up di riflessioni, autobiografie, di autori (ce ne sono almeno 7, credo, all’interno del lavoro) che in qualche modo risuonano con la mia biografia, ma non è la mia biografia.

Lo spettatore, quindi, è portato a sbagliare due volte, prima nella lettura del titolo e poi a credere che è di te che si stia parlando…

Se tu ci pensi, però, non è un errore, è già una tua forma di lettura, una tua forma di traduzione. Nel momento in cui vedi il materiale lo leggi e lo traduci nel modo che a te sembra più iconico: per questo per te quella cosa diventa “middlesex”, perché tu hai gli strumenti per leggerlo così. A qualcuno “MDLSX” sembra una data romana, perché non ha i riferimenti che hai tu, e così via. Lo spettacolo è proprio concepito in questo modo. Si mette in campo una parola che viene dalla narrativa o dalla filosofia e non dal teatro, e questa è stata un’altra scelta forte secondo me; tutto lo spettacolo è solo parola scritta. Quella parola viene ascoltata e riletta, e quindi decifrata. È ovvio, c’è questo gioco di sovrapposizione con me, ed è molto forte, è interessante, ma questo è il teatro: sovrapponi. Al cinema quando guardi un film non stai tanto a chiederti se quell’attore sta mentendo o non sta mentendo. Ti fidi, e vai con lui. È il personaggio, non è più l’attore, e quindi tu segui il personaggio. E così accade magicamente, perché è successo in scena per quel che riguarda me, che in questo caso ci sia una sovrapposizione, da una parte, ovviamente giocata e voluta, ci spingiamo verso quella direzione, ma dall’altra parte non è obbligatoria. È ciò che fa la differenza rispetto a tutti i lavori precedenti: non ha nessun punto meta-teatrale dentro la parola portata. Parla tanto del personale, ma di un personale che alla fine è facile sentire risuonare in se stessi, perché non coincidendo perfettamente con me può coincidere invece con tantissime altre esperienze nello stesso tempo.

Cos’è Motus dopo Sandra Angelini? Per voi è di certo stata più di un’organizzatrice teatrale. Non ci siamo mai incontrate di persona, ma ho scambiato più volte con lei impressioni, informazioni… ho intuito subito quanta sapienza, pazienza, saggezza avesse. Posso chiederti qual è l’insegnamento più grande che ti ha lasciato?

Che bello che me lo chiedi… Sandra era malata da molti anni e in tutti questi anni di malattia è stata una portatrice infetta di vita. Il suo portato era la vita e a tutti non ha fatto altro che passarci questo. E infatti c’aveva abituato alla vita ed è una cosa incredibile. Dal punto di vista di Motus, Sandra è Motus. È Motus come Enrico, Daniela, e lo sarà sempre. Ed è un esempio, proprio, di una formazione in cui i ruoli si intercambiano. Sandra era una compagna, un’amica, qualcuno che ti stava vicino nei momenti difficili, e non aveva più niente a che fare con la professione in sé. Quando poi è morta abbiamo scoperto che c’era tantissima gente che la stimava, ma non immaginavamo che fosse così tanto largo il cerchio di persone che la stimava sì professionalmente, ma per prima cosa umanamente. Alla fine di MDLSX ogni sera mando questo bacio… e lo mando a lei. Bello che mi chiedi di Sandra, ti ringrazio tanto. Sai quanto è bello lavorare con qualcuno che è super orgoglioso di te? Ecco, lei era proprio orgogliosa. Era così, lei.



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