Arti Performative Focus

Del teatro, dell’amore, di altri demoni: Pergine Festival

Renata Savo

Dialogo dunque ascolto

«[…]il movimento del farsi luogo è il dialogo: a questo serve l’ago per cucire, per tessere il dialogo. Il movimento fondamentale è il rivolgersi, come scrive Martin Buber. Occorre pensare allo spettatore come a colui al quale ci rivolgiamo»; così Marco Martinelli, in uno dei testi sul teatro più belli degli ultimi anni, Farsi luogo (Cue Press, 2015).

“Dialogo” si chiama lo strumento più antico messo a disposizione dell’uomo per riempire il suo silenzio interiore. Un processo che genera osmosi con un’altra entità e che il Teatro, quello con la T maiuscola, conosce bene. Cosa dev’essere il teatro, oggi, se non un dialogo fra gli uomini e per gli uomini, in una società liquida, sempre più connessa, individualista, e molto meno in ascolto empatico? In virtù della sua capacità di dialogo, non possiamo a volte non pensare al teatro come a una forma d’amore. L’innamoramento coincide con l’immaginazione, con la fantasia, e nell’amore si esprime tutta l’essenza del desiderio di costruire con l’altro, di condividere il proprio tempo e spazio, e di credere che l’utopia sia realizzabile. «Bisogna tirare l’anima da tutte le parti come se fosse un lenzuolo dilatabile all’infinito», direbbe il personaggio di un film di Tarkovskij. In sostanza, il teatro è l’unica arte in cui immaginare è uguale ad agire, è il lenzuolo dilatabile all’infinito.
Nell’accogliente cittadina di Pergine Valsugana nel Trentino Alto Adige, dove si è svolto dal 6 al 15 luglio il Pergine Festival – Festival di teatro e arti performative diretto da Carla Esperanza Tomassini insieme all’associazione Pergine Spettacolo Aperto, abbiamo percepito e respirato questo amore. Si è dichiarato, confessato a noi, ma rivolgendosi alla comunità, con il desiderio di incontrare nuovi spettatori e di immaginare questa vicinanza come l’opportunità più idonea a fotografare l’identità di un territorio. “Comunità” è stata la parola-chiave – e il fatto oltre le parole – nel progetto di quest’edizione, la 43esima, che si è donata incondizionatamente offrendo molti eventi accessibili a tutti. Ad alcuni spettacoli si abbinavano audiodescrizioni e audiointroduzioni per non vedenti e un servizio di interpretariato della lingua dei segni italiana per non udenti; anche sul palco sono state coinvolte persone con disabilità, ne è stata una testimonianza diretta il coro di sordomuti che ci ha accolto la prima sera, il 6 luglio, e che si esprimeva accompagnato musicalmente con la lingua dei segni. Diramandosi dalla piazzetta situata alle spalle del Municipio arredata a mo’ di giardino, con pouf e zolle verdi di terra disseminate, chiamata Foresta Urbana – usata anche per gli interessanti incontri quotidiani tra pubblico e artisti a cura di Roberto Rinaldi (“Rumor(s)cena”) – il festival ha trasformato la città di Pergine in uno spettacolo a cielo aperto, restituendo a tutta l’area geografica circostante una visibilità nazionale, con ricadute positive sul turismo locale e regionale.
Proveremo di seguito a vedere il lavoro di Pergine Festival anche sotto un’altra luce, quella della sperimentazione attraverso le forme mediali. Sulla base della nostra esperienza avvenuta nei primi due giorni della manifestazione, cercheremo di dimostrare come questo longevo quanto lungimirante festival rappresenti oggi una delle migliori occasioni su territorio nazionale non solo per conoscere la scena contemporanea, italiana e non, ma anche, e soprattutto, per entrare in relazione con il nuovo e sempre più complesso mediascape contemporaneo.

“Foresta Urbana”. Foto di Elisa d’Ippolito

 

La fine del teatro? Un teatro senza fine

Sentiamo spesso gli artisti lamentare la mancanza di pubblico autentico nelle sale teatrali, laddove per “pubblico autentico” s’intende un pubblico di non addetti ai lavori che riguardano il teatro. Una carenza che chiama in causa persino una morte presunta di quest’arte, che, essendo sotto certi aspetti un medium sui generis – perché utilizza il corpo e non protesi che estendano le sue funzioni – richiede uno sforzo di presenza che oggi, con somma tristezza, è sempre più facile negare. Tornano in mente le parole del maestro Eugenio Barba: in una nostra intervista in cui chiedevamo che cosa ne pensasse di un teatro non “povero”, Barba aggiungeva che il teatro è un’arte immortale, perché al diminuire del pubblico non si registra un calo delle “vocazioni” dei teatranti, e il segreto della sua immortalità risiede nella sua assenza di regole, una grande virtù che gli consente di essere “tante cose”: «In teatro come ogni disciplina artistica esiste una sola regola: non devono esistere regole».
In effetti, a osservare l’evoluzione dei linguaggi della scena con il grandangolo, si nota che sin dagli anni ’80, con le pioneristiche esperienze di Giorgio Barberio Corsetti e di Studio Azzurro, il teatro in Italia ha iniziato a interagire con le arti elettroniche e digitali, scomponendosi e ricomponendo il suo statuto, e cercando di oltrepassare le sue “regole”, fatte di limiti esistenti tra tempo e spazio, ambiente esterno e scena, azione e corpo, falso e reale. Nel 1999, ipotizzando uno scenario futuro del teatro, il filosofo salernitano Mario Costa aveva immaginato che il teatro avesse tre possibilità di evoluzione rispetto alla contraddizione tra tempo dal vivo e tempo mediato: «le strategie logicamente possibili, che il medium teatrale poteva opporre ai nuovi media erano sostanzialmente tre: il teatro poteva rispondere: 1) ricercando ed evidenziando il suo specifico 2) assimilando la logica dei nuovi media, 3) rinunciando completamente a se stesso per trasferirsi completamente sui nuovi supporti».
Proprio nei due giorni in cui siamo stati a Pergine Festival (6 e 7 luglio) abbiamo assistito a performance ed esperienze che hanno soddisfatto il ventaglio completo delle possibilità appena enunciate; un dato che testimonia l’ampiezza di sguardo e l’interezza dell’offerta della manifestazione per quanto concerne il rapporto attuale tra teatro e nuovi media. Insomma, potremmo azzardare l’ipotesi che, tenendo conto una buona parte del panorama festivaliero italiano, Pergine Festival si sia conquistata una sua peculiare identità sostenendo coraggiosamente, accanto al teatro, progetti spuri e di difficile etichettatura che rientrano nella sfera più ampia della performance, spesso sconfinanti in altri tipi di esperienze che di solito non vengono considerate né teatrali né artistiche e, piuttosto, ipermediali.

“Stanze” di Circolo Bergman. Foto di Elisa d’Ippolito

Un primo esempio di ciò è dato da Stanze del collettivo Circolo Bergman, una performance che ricorda certe drammaturgie sonore site-specific dei Rimini Protokoll, dove un gruppo di spettatori esplora, conosce e modifica la sua percezione dello spazio attraverso una regia che, dagli auricolari, lo guida nei suoi spostamenti. Con Stanze siamo a Palazzo Gentili/Crivelli, edificio settecentesco appartenuto alla famiglia Crivelli fino al 2003 e poi ceduto in comodato d’uso al Comune di Pergine nel 2012. Un luogo dismesso da dieci anni, che è stato aperto in via eccezionale, per il Pergine Festival dal 6 al 15 luglio, grazie a un bando pubblico che Pergine Spettacolo Aperto ha vinto, e che prevedeva l’attivazione di una serie di visite guidate riservate a gruppi di 15 persone. Da qui il progetto affidato a Circolo Bergman (Paolo Giorgio, Marcello Gori e Sarah Chiarcos) che  ha condotto il pubblico verso la scoperta delle vicissitudini storiche della famiglia Crivelli, e che, soprattutto, ha realizzato l’occasione di visitare uno dei luoghi più caratteristici della città, restituendolo temporaneamente alla comunità. Stanze è un’esperienza di teatro itinerante molto vicina alla visita guidata, ma con un quid in più. Oggetti appartenuti alla famiglia Crivelli, o presunti tali, sono sparsi su scaffali per diventare appigli all’immaginazione delle persone che hanno vissuto nel palazzo, sentiamo persino i loro passi, diventando testimoni immaginari della loro quotidianità, dei loro vari trascorsi biografici. Camminiamo in uno spazio immerso nella semi-oscurità, illuminato da torce, ma che è vivo, presente, rianimato da silenziosi fantasmi, proiezioni di personaggi (incarnati dalla performer Sarah Atman) o della mente in una città come quella di Pergine che per molto tempo ha legato il suo nome alla presenza dell’imponente ex ospedale psichiatrico, rimasto attivo dalla fine del XIX e per tutto il XX secolo. Stagliata sulle musiche originali di Marcello Gori, la drammaturgia prova, e riesce, a mettere in relazione empatica il pubblico con i protagonisti di cui si narrano le vite all’interno della casa nobiliare oggi semivuota, ma non senza qualche forzatura o dejà vu, come nella parte finale, ambientata all’interno di un salone signorile, dove viene richiesto uno sforzo di immedesimazione scegliendo di posizionarsi in corrispondenza con i volti che incorniciano la parte sottostante il soffitto, riconducibili agli antenati Crivelli; o nello scatto fotografico finale che immortala e tramanda l’unicità del momento. Interessante progetto dal punto di vista dell’esperienza della visita guidata all’interno di uno spazio dismesso e a cui riconsegnare il valore storico, Stanze senza dubbio rappresenta un modello emblematico, promosso a pieni voti per il modo in cui ha soddisfatto le finalità richieste dal bando.

“A Manual on Work and Happiness” di mala voadora. Foto di Elisa d’Ippolito

Una comunità partecipe

Uno degli aspetti su cui Pergine Festival ha insistito maggiormente è stato il coinvolgimento della comunità cittadina nella drammaturgia dello spettacolo, secondo una modalità che negli ultimi anni è stata indicata con la definizione, molto discussa, di “teatro partecipato”. Riportiamo qui due esempi (ma ce ne potrebbero essere ancora degli altri estrapolati dalla stessa edizione, come Le ragazzine stanno perdendo il controllo di Eleonora Pippo, cui ha preso parte un gruppo di ragazzine di Pergine); sono reciprocamente agli antipodi, ma entrambi significativi. Il primo è offerto da A Manual on Work and Happiness della compagnia portoghese mala voadora su testi di Pablo Gisbert, che ha visto la partecipazione di 20 cittadini di Pergine Valsugana, nato grazie al sostegno del programma Europa creativa dell’Unione Europea. Dopo un lungo seminario internazionale della compagnia sui temi del lavoro e della felicità, lo spettacolo, scritto durante una residenza artistica a Mondaino, e frutto del laboratorio condotto in dieci incontri dal codirettore artistico di mala voadora Jorge Andrade, è andato in scena nella sua versione italiana il 6 luglio al Teatro Comunale Pergine Valsugana in prima nazionale. Nonostante il potenziale di indagine molto alto, trattando il tema del peso che il lavoro e la felicità hanno nelle nostre vite, cioè uno dei temi più discussi e ampi del nostro tempo, si è incappati nel rischio di portare sul palco uno spettacolo più interessante sotto il profilo sociologico, e quindi del processo creativo, piuttosto che estetico e della resa finale. Le persone, non attori, che hanno partecipato si sono ritrovate a recitare il testo (a tratti cerebrale, filosofeggiante, sulla fatica che si cela dietro la costruzione di uno spettacolo, costruito seguendo un manuale d’istruzioni), e da questo legittimati a reggere dei “copioni”; forse, sarebbe stato preferibile non far “recitare” gli attori – che attori di professione non sono ad eccezione di Clara Setti – bensì redigere delle coordinate di scrittura insieme ai partecipanti, chiamandoli a rappresentare se stessi sul palco e rendendo la presenza di ciascuno insostituibile e coerente con l’intenzione di raccontare gli stili di vita della singola comunità in relazione al mondo del lavoro. Tuttavia, ci sono dei punti di forza: la costruzione spaziale e l’insistenza sul tempo. In alcuni momenti, infatti, il tempo viene scandito con una numerazione pronunciata a voce, stimolando una riflessione sull’equazione tra tempo e denaro; lo spazio, invece, sfrutta la dialettica tra la “pesantezza” dei caratteri tridimensionali, cubitali, che compongono la parola “work” – spostati dagli stessi attori, “al lavoro”, appunto, come servi di scena – e la leggerezza delle sinfonie classiche che fanno da accompagnamento. Nel mondo futuribile rappresentato, schiacciato silenziosamente da un sistema di produzione che plasma le menti degli uomini per sottometterli al dio lavoro – un’interessante lettura a tal proposito è Schiavi di un dio minore di Giovanni Arduino e Loredana Lipperini – l’immagine di un paesaggio collinare arieggiante evoca l’idea di libertà, ma nel contempo è specchio per le allodole incastonato tra le rigide linee che delimitano le lettere della parola WORK dentro cui l’immagine di libertà viene imprigionata in modo paradossale.

“M2” dei Dynamis. Foto di Elisa d’Ippolito

L’altra performance che vede coinvolti sette partecipanti, volontari reclutati un quarto d’ora prima dello spettacolo, è M2 dei Dynamis, che ha debuttato il 7 luglio presso l’Ex rimessa delle carrozze, in una versione da 50 min (della versione da 30 min se ne parlava qui). La ricerca dei Dynamis, collettivo romano amato nella cittadina valsugana, dove nel 2015 realizzò il progetto 2115 presso il Castello Pergine, reca in sé degli aspetti comuni alle indagini che interessano le discipline demo-etno-antropologiche. Dopo aver affrontato il tema del tempo e la trasmissione di materiali, paure e speranze dalla comunità del presente alla comunità del futuro, ha approfondito con Mil discorso sull’utilizzo differenziale dello spazio e sulle possibilità di azione del corpo umano insite in un metro quadro, generando una sorta di comunità spontanea in cui i sette membri collaborano per svolgere compiti e obiettivi comuni, che sono necessari alla “sopravvivenza”. Un tutor (Francesco Turbanti) funge da arbitro affinché la simulazione delle condizioni di sopravvivenza in un metro quadro sia rispettata dagli improvvisati performer. Dal loro canto, i partecipanti si aggiungono gradualmente all’interno dell’area tracciata e con grande senso di responsabilità, ma anche autoironia, rispondono come meglio riescono agli ordini imposti. Come in un videogame, il livello di difficoltà dei compiti nel corso dell’esperimento aumenta, con esiti imprevedibili e spesso esilaranti. Il teatro ritrova con M2 il suo specifico innescando un meccanismo empatico per cui i partecipanti, e di riflesso il pubblico in sala, riconoscono le difficoltà obiettive di azione in uno spazio ridotto, delimitato a terra da linee di nastro adesivo: un’area di costrizione fisica che può far venire in mente le condizioni dei migranti sui barconi che attraversano il Mediterraneo. La riflessione politica che ne consegue è perfettamente spiegata dal collettivo, nel foglio che accompagna l’ingresso in sala: «il potere del teatro ci permette di provocare e ampliare il nostro grado di empatia e anche di creare condizioni, occasioni dinamiche che ribaltino i ruoli a cui siamo abituati». Negli stessi giorni, il collettivo Dynamis ha condotto un “laboratorio di attraversamento e visione critica” dal titolo Abbecedario del teatro quotidiano, finalizzato alla ricerca di un alfabeto di gesti a partire da immagini, stimoli e ragionamenti sul teatro contemporaneo senza pregiudizi, da parte di un gruppo di partecipanti non attori.

 

Virtual Reality. Foto di Elisa d’Ippolito

Medium dentro e oltre il medium

E se la realtà circostante, infine, sparisse per fare posto a un mondo virtuale? Se il corpo, quello di due danzatrici, e persino quello dello spettatore, diventasse etereo, impalpabile, senza organi o arti, e lo spazio intorno fosse un altro spazio, non reale ma elettronico? Nella Virtual Reality ciò è possibile, e a Pergine Festival, inaspettatamente, ne abbiamo fatto esperienza con DUST di Mária Júdová e Andrej Boleslavský e JANUS di Marta Di Francesco, accessibili presso due aree contigue del Palazzo Hippoliti. In entrambi i casi, la chiave di ingresso al mondo virtuale è stata un visore, una protesi per la realtà virtuale. In DUST, lo spazio è un paesaggio di luce e colori tenui, all’interno del quale il fruitore si sente come una particella libera di muoversi in tutte le direzioni. Ci troviamo catapultati dentro una sorta di ballatoio dal design minimalista, ci spostiamo fisicamente tanto quanto virtualmente e, come si può immaginare, per motivi di sicurezza, un segnale ci indica il limite oltre cui non è consigliabile andare (il rischio sarebbe di sbattere contro una parete del nostro spazio reale!). Un’esperienza che ci ha tolto il fiato, DUST (soprattutto per chi come chi scrive prova una lieve paura del vuoto). I confini del cielo e della terra si sono allontanati e ristretti; all’improvviso, due figure leggere come noi hanno danzato, e quasi avremmo potuto farlo anche noi con loro… Anche in JANUS sono registrati i movimenti di una danzatrice, ma le possibilità di azione del fruitore sono meno ricercate. JANUS esplora gli effetti del tempo sullo spazio, con una chiave mitologica e filosofica. Per effetto di una sovrapposizione temporale la figura che danza si sdoppia, i movimenti sono fluidi, lo spazio astratto che la circonda si modifica insieme al volume dell’entità danzante. Il suono che fa da sottofondo a una voce off narrante ci immerge in una dimensione onirica che ipnotizza. E noi, come davanti a un palcoscenico, la contempliamo.
Infine, un’altra sorpresa va a coronare la gamma delle tre possibilità di reazione ai nuovi media nei processi di evoluzione della scena contemporanea che abbiamo indicato all’inizio, e che Pergine Festival ci ha dato modo di scoprire ed esplorare. Superando qualsiasi etichetta critica, per la fusione e la sovrapposizione fra più media, colpisce un’idea semplice e originale come Nuovo Cinema 500 #Pergine dei Full of Beans, tra i vincitori del bando OPEN / CREAZIONE CONTEMPORANEA 2018. Una sorta di installazione pensata come un cinema per due persone, ricreato all’interno dell’abitacolo di una storica Fiat 500 sventrata nella sua zona anteriore. Con un meccanismo di ispirazione postmoderna, l’automobile, mezzo di trasporto spogliato della sua originale funzione, si trasforma in metamedium per accogliere la visione di due cortometraggi. Nei video scopriamo, affiancati da un conoscente o un estraneo, le storie dei membri della nuova comunità perginese, ovvero i cittadini stranieri che negli ultimi anni si sono integrati nel tessuto sociale e che i Full of Beans sono andati a cercare e a intervistare in giro per la città. Il montaggio dei brevi documentari è ben curato e studiato, la dialettica tra suono e immagini mai banale; i video sono opera di Edoardo A. Palma, Emanuele G. Forte, Giacomo Forte ed Elio D’Alessandro (registi, musicisti e videomaker). Siamo certi che, in futuro, lo strano collettivo dei Full of Beans, qui formato oltre che dai quattro videomaker da una serie di professionisti dai ruoli più svariati – Diana Ciufo (architetto), Elisa Cuciniello (studiosa di performing arts) e Marco Mastantuono (psicologo e theater coach) – sarà in grado di stupirci ancora.

 

La comprensione del mediascape contemporaneo

Tirando le somme, Pergine Festival oggi uno di quei pochi festival di arti performative sul territorio nazionale capace di coniugare l’immediatezza e la semplicità del dialogo alla complessità mediale dell’offerta. In questa dialettica tra semplice e complesso, tra scontro e immersione totale in una varietà di forme liquide e inafferrabili, non si può fare a meno di riconoscere una funzione divulgativa ed educativa. Basandoci sull’insieme delle performance che abbiamo trattato, da quella in cui vengono svelati ai partecipanti e al pubblico i passaggi che occorrono a creare uno spettacolo come fosse un oggetto da assemblare (A Man on Work and Happiness) fino all’esperienza del cinema dentro la piccola Fiat 500, possiamo dire con certezza che Pergine Festival, ponendoci di fronte alla pratica e all’esperienza diretta dei linguaggi, ci conduce per mano verso la comprensione del panorama mediale contemporaneo guardando al teatro stesso come a una forma mediale. Come hanno chiarito Laura Gemini e Antonio Pizzo (Teatro e mondo digitale, Marsilio, 2003), pensare il teatro in forma mediale non soltanto permette di pensare al riposizionamento delle pratiche e dei saperi teatrali nel mediascape contemporaneo, ma anche di illuminare di nuova luce le pratiche dei media sia analogici che digitali. In altre parole, quelle dei mediologi Alfonso Amendola e Vincenzo Del Gaudio (Teatro e immaginari digitali, Gechi Edizioni, 2018): «la flessibilità sistemica del medium teatrale gli garantisce la possibilità di essere un medium onnivoro […] un dispositivo segreto a partire dal quale comprendere l’evoluzione e la trasformazione del mondo mediale contemporaneo, ancora una volta una sorta di metamedium in cui rappresentare e spiegare le logiche dei media digitali».

 

Immagine di copertina:  “Itinerari coreografici in urbana” dei Dance Makers. Foto di Elisa d’Ippolito.



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