Arti Performative

Deflorian/Tagliarini // Quasi niente

Renata Savo

“Quasi niente” c’è stato dal 9 al 14 ottobre, fisicamente, sul palco del Teatro Argentina di Roma, sventrato di tutti i suoi attrezzi tradizionali. Niente quinte, niente fondale. Niente di tutto ciò che di solito si accompagna all’utilizzo di uno spazio finalizzato a contenere uno spettacolo. Persino la musica, che si ode all’ingresso del pubblico in sala, proviene come un sottofondo lontano, non dal canonico impianto audio, ma da una semplice radiolina che giace a terra in proscenio. Tuttavia, quel poco rimasto in Quasi niente di Deflorian/Tagliarini, andato in scena nell’ambito del Romaeuropa Festival, è stato utile ed evocativo: una poltrona (arredo da salotto per antonomasia e solo apparentemente in ottimo stato); un comò da cui spuntano libri e oggetti personali, di una quotidianità nervosa; un telo opaco che, tagliando a metà la profondità del palco, separa il possibile dal reale (l’architettura spaziale è opera di Gianni Staropoli). Dietro al telo, come in un “negativo” dell’esperienza cinematografica, si stagliano silenziose e in attesa di scavalcare quella soglia le figure in carne e ossa degli attori. Francesca Cuttica, Daria Deflorian, Monica Piseddu, Benno Steinegger, Antonio Tagliarini rappresentano una categoria sociale e al tempo stesso sono strumenti portatori di verità: la Trentenne, il Quarantenne, la Quarantenne, il Cinquantenne, la Sessantenne. Ognuno ci rappresenta in una fase diversa e matura della vita. Ognuno con le sue piccole storie è, come la scena sventrata e nuda, un segno di “resistenza”, una presenza anticonformista per il semplice fatto di dichiarare i suoi limiti in una società in cui i limiti vanno camuffati e nascosti. Piuttosto che soccombere al sistema, hanno scelto di esternare il proprio malcontento. Sono questi, sembrano dirci Tagliarini/Deflorian, i veri eroi del nostro tempo, come eroina diventa la malinconica Giuliana-Monica Vitti in Deserto Rosso, diretto nel 1964 da Michelangelo Antonioni – film che ha liberamente ispirato la drammaturgia dello spettacolo – quando riesce a guardare e a comunicare le cose finalmente per ciò che sono senza aver timore di dire “ho paura” o “non ce la faccio”. Ci vuole coraggio a confessare la difficoltà di stare al passo con gli altri (il paesaggio evocato nel film non è neanche poi tanto lontano, spiritualmente, da quello attuale), a manifestare anche solo con le parole il disagio che si prova a “essere” nella realtà.

C’è una scena del film che dà accesso a un’interessante meta-narrazione, in cui si condensa nell’arco di pochi minuti il senso dell’intera pellicola. Un bambino, figlio di Ugo e Giuliana, finge di essere malato per non andare a scuola, e la madre si intrattiene con lui raccontandogli la storia di una ragazzina che amava restare da sola perché non si trovava bene né con i giovani né con gli adulti; così, la bambina se ne stava sempre su un piccolo pezzo di litorale deserto, in un paesaggio diametralmente opposto a quello reale, finché un giorno neanche qui trovò pace, perché una voce umana proveniente da chissà dove contaminò la quiete naturale di quell’unico angolo di sopravvivenza che sembrava destinato a ospitare il suo essere profondo (mentre, come ricorda Daria Deflorian nello spettacolo, oggi questa funzione la svolgono “i bagni”: gli unici posti dotati di una chiave e in cui è lecito lasciare gli altri fuori).

“Chi cantava?” domanda il figlio, “Tutti cantavano”, gli risponde la madre. Perché bastano due soli occhi a condizionare un essere umano al punto tale da non distinguere la sua vocazione più autentica. Quali atteggiamenti, movimenti, pensieri, ci attraverserebbero se il mondo non ci stesse sempre con il fiato sul collo, se non rivendicasse su di noi il suo maledetto diritto a edificare delle aspettative – piccole o grandi, ma comunque sempre aspettative – attorno ai ruoli sociali che ricopriamo in relazione agli altri? Il dottore quando siamo i pazienti, la famiglia quando siamo i figli, il compagno di avventure quando dobbiamo essere per l’altro nient’altro che il compagno di avventure di una notte, senza margini di sviluppo affettivo (quando magari, invece, ne avremmo bisogno).

L’esternazione del proprio disagio – il ripetuto “Non ce la faccio” – quando avviene, si pone allora come una vera e propria forma di resistenza contro un solido, incontrovertibile, sistema di valori. Ed è per questo che Quasi niente, con i suoi attori e non-personaggi incredibilmente intimi e umani, solitari e prossimi – soprattutto Monica Piseddu, attrice dalla statuaria compostezza pronta a esplodere -, usando la figura della preterizione ci dice tutto. Tutto quello che non abbiamo il coraggio di dire, agli altri e a noi stessi. Politicamente, linguisticamente, la sottrazione (quasi) e la negazione (niente) assurgono a paradigma compositivo di una drammaturgia – alla quale ha collaborato anche l’attore Francesco Alberici – che appare tanto più ironica quando più amara, sincera, in ascolto, rispetto alla buia condizione che ci riguarda, ovvero quando sottolinea le nostre fragilità: “Giuro che faccio la brava, faccio tutto quello che bisogna fare. Io mi metto in ginocchio, prego Dio direttamente, faccio i fioretti. Dico: Dio, Dio ti giuro che, se non sono gravemente malata – giuro, giuro che mi depenso. Per almeno quattro mesi non mi occupo la testa, depenso!”. 

Ecco, quanto gioverebbe anche a noi, di tanto in tanto, depensarci un po’, per metterci in ascolto dei nostri bisogni?
Pensiamo-ci

 

(Foto di copertina di Claudia Pajewski)

 

QUASI NIENTE

Progetto Daria Deflorian e Antonio Tagliarini liberamente ispirato al film Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni
Collaborazione alla drammaturgia, Aiuto regia Francesco Alberici
Con Francesca Cuttica, Daria Deflorian, Monica Piseddu, Benno Steinegger, Antonio Tagliarini Collaborazione al progetto Francesca Cuttica, Monica Piseddu, Benno Steinegger
Consulenza artistica Attilio Scarpellini
Il testo Buono a nulla è di Mark Fisher Luce,
Spazio Gianni Staropoli
Suono Leonardo Cabiddu, Francesca Cuttica (Wow) Costumi Metella Raboni Traduzione e sovrattitoli in francese Federica Martucci Direzione tecnica Giulia Pastore Organizzazione Anna Damiani Accompagnamento, Distribuzione internazionale Francesca Corona / L’Officina Produzione A.D., Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Teatro Metastasio di Prato, Emila Romagna Teatro Fondazione Coproduzione théâtre Garonne, scène européenne Toulouse, Romaeuropa Festival, Festival d’Automne à Paris / Théâtre de la Bastille – Paris, LuganoInscena LAC, Théâtre de Grütli – Genève, La Filature, Scène nationale – Mulhouse Sostegno Istituto Italiano di Cultura di Parigi, L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino, FIT Festival – Lugano Foto © Claudia Pajewski



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