Cinema

Da Boatman a Fuocoammare: il racconto degli Altri di Gianfranco Rosi

Franco Cappuccio

In occasione dell’incontro con Gianfranco Rosi alla Reggia di Caserta il 20 Aprile per la serie di eventi Maestri alla Reggia, ripercorriamo la carriera del documentarista eritreo. 

 

Aldilà delle polemiche sull’essere o meno un regista sopravvalutato, che sempre capitano nel nostro paese quando si vincono riconoscimenti prestigiosi, sicuramente un grande merito di Gianfranco Rosi è stato quello di aver fatto da apripista per fare conoscere ad un pubblico quantomeno allargato ai cinefili e non limitato a coloro che bazzicano festival del documentario di quell’eccellenza – per sperimentazione ed innovazione di linguaggi – che è in questi anni il nostro cinema di non-fiction. E lo fa mettendo in luce alcune delle caratteristiche proprie del linguaggio del reale di oggi, allontanandosi dal documentario tradizionale di stampo televisivo – seppur rimanendo sempre ancorato ad una fruizione user friendly del proprio prodotto cinematografico, evitando sperimentazioni estreme – fin dal suo esordio nel 1996 con Boatman, con cui ha girato i principali festival internazionali (Sundance, Locarno, Toronto, IDFA, tra gli altri), mettendoci di fronte ad un lavoro in cui Rosi punta la camera fissa su una canoa, inquadrando semplicemente il suo conduttore, il Boatman appunto, accompagnandolo in questo viaggio dell’assurdo (con discorsi che spaziano in modo anche surreale tra gli argomenti) che non ha una struttura davvero identificabile, ma che si lascia trascinare come – appunto – una barca tra le onde, generando un’empatia emotiva con la storia umana che il regista racconta in grado di toccare profondamente colui che guarda il film.

Dopo Afterwords, passato più o meno nel dimenticatoio a Venezia 2001 e film evidentemente di transizione del regista eritreo di origine italiana, il suo primo lungometraggio (i precedenti due erano infatti mediometraggi), dal titolo Below Sea Level, rappresenta per Rosi il film della svolta nella formulazione della sua poetica espressiva. Racconto di una comunità che vive sotterranea in una base militare dismessa a 190 miglia da Los Angeles, il film mette già in nuce alcuni degli stilemi – come il racconto degli “altri” rispetto al centro – che troveranno compimento in Sacro GRA; a differenza di quest’ultimo però, in Below Sea Level l’obiettivo di Rosi è di tracciare un orizzonte, inteso come la superficie, dove tutte le cose sono visibili. Filmare ciò che avviene sotto la superficie vuol dire innanzitutto colmare una distanza tra ciò che è visibile e ciò che è invisibile, ma anche mostrare dei personaggi cristallizzati, fortemente tipizzati, a sottolineare la distanza dalla superficie intesa come grado zero dell’immagine, e quindi a mostrarci un sotto-zero, in cui ogni inquadratura esiste in quanto è, ma non necessariamente si fa portatrice di un messaggio o di un intreccio.

È evidente come in Below Sea Level si compie un lavoro sullo spazio dell’azione, che rappresenta una cifra stilistica ripresa anche nel successivo El Sicario – Room 164, in cui la stanza – esplicitata anche nel titolo – diventa la protagonista del documentario, assieme alla voce del sicario; una stanza chiusa, che fa da contraltare con la perdita di libertà del sicario, la sua costrizione ad avere quel ruolo, il suo essere una marionetta. L’agire del protagonista come una figurina stilizzata, che non possiamo neanche vedere se non appunto come postura, diventa così il prodotto oppressivo di quella stanza, allo stesso modo in cui i personaggi che ruotano intorno al Grande Raccordo Anulare diventano scenografia bidimensionale di ciò che avviene nella periferia romana.

Anche in Sacro GRA, infatti, il luogo produce le persone che vi girano intorno; Rosi infatti prova a girare un film sul girare, sul cerchio (rappresentato appunto dal raccordo), e lo fa prendendo dei punti fissi e ruotando su se stessi per mostrarci l’assoluta immobilità di un mondo fittizio, assolutamente noncurante degli sconvolgimenti del centro, ma deciso a giocare una partita in cui tutto deve cambiare affinché nulla cambi, per prendere in prestito le parole del Gattopardo. Non è come in Below Sea Level, dove la distanza dal centro (la superficie) si sente nelle parole e nelle storie della comunità, ma bensì la rassegnazione dell’essere stati dimenticati; non è più il guardare al passato, sempre presente come un fantasma nei lavori precedenti, ma è un guardare al presente, al qui e ora dell’azione.

E proprio quest’ultimo punto torna nel recentissimo Fuocammare, anche questo costruito agendo su un perimetro ben definito (l’isola di Lampedusa diventa così il grande raccordo anulare, la stanza o la base militare sotterranea) con cui raccontare non le storie corali della drammatica situazione dell’isola, ma le storie individuali, continuando ad agire nel voler raccontare un tempo presente dilatato nell’intimistico. Il centro diventa periferia: sono pochissime le scene che ci mostrano il salvataggio dei migranti, quasi come se fosse impossibile ignorarle perché parte del contesto, ma relegate a ruolo di contorno rispetto alla vita degli isolani, e di come si relazionano o non si relazionano con questo dramma. Negare la coralità, per far implodere il problema di Lampedusa nei salotti degli abitanti, nel dj che dedica canzoni, in una normalità mancata.



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