Cinema Il cine-occhio

Cristo si è fermato ad Eboli

Stefano Valva

Francesco Rosi è stato – fra le altre cose – un regista che potremmo definire coraggioso; perché più di tutti, durante il secondo dopoguerra, fino ad arrivare al periodo del benessere economico, ha saputo dare voce, analizzare e scrutare, epocali e scabrosi fatti di cronaca del nostro paese.

Salvatore Giuliano, Il caso Mattei, e in parte anche Lucky Luciano, sono pellicole – oltre a rappresentare un grande lavoro sui generi, seguendo le orme dei grandi registi americani della nascente New Hollywood – basate su cronache, su casi misteriosi e mai risolti, i quali hanno creato il sotto-genere del cinema di inchiesta, che mai cercava di essere – come nel caso del regista napoletano – un giudice o un sentenziatore, ma solamente un attento scrutatore. La rappresentazione filmica di queste tematiche creò anche dubbi e censure verso il cinema di Rosi.

Cristo si è fermato a Eboli è un’opera che prima di tutto è tratta da un grandissimo romanzo di Carlo Levi, scritto nel pieno della seconda guerra mondiale, e che dopo svariate vicissitudini uscì nel 1945, diventando un perno della moderna letteratura italiana e anche un modello per il cinema del rivoluzionario neorealismo.

L’adattamento cinematografico diretto da Rosi arriva nelle sale nel 1979, con la durata di 150 minuti. In seguito, l’opera arriva anche sugli schermi televisivi nel 1981. Qualche settimana fa, facendo seguito al restauro effettuato sulla pellicola, la Rai ha rilasciato, sui propri canali e sulla sua piattaforma on demand RaiPlay, la versione integrale di 270 minuti, divisa in quattro puntate.

Cristo si è fermato a Eboli potrebbe essere unito proprio a quel cinema di inchiesta – seppur narrativamente e tematicamente diverso dalle altre opere  di Rosi – sul fascismo, ossia sull’Italia, che attraverso la settima arte cerca di fare i conti, tanti anni dopo, con uno dei fenomeni politici e sociali più imponenti della sua storia, e che Rosi, attraverso il racconto letterario di Levi, prova a intraprendere, allo stesso modo – nonostante con stili diametralmente opposti – di registi a lui coetanei come Ettore Scola o Carlo Lizzani.

La storia racconta di un intellettuale, laureato in medicina, ma non praticante della professione di medico, di nome appunto Carlo Levi (alter-ego dello scrittore) – interpretato dallo storico attore-feticcio di Rosi, ossia Gian Maria Volonté – il quale viene spedito, durante gli anni dell’invasione coloniale in Etiopia, al confino, cioè in una sorta di esilio e di ritiro (come nell’antica Roma) dalla vita pubblica, in un paesino della Lucania. Inizialmente, la nuova vita per il dottor Levi è psicologicamente tragica, difficile da accettare. Successivamente, si ambienta e cerca di diventare utile per tale contesto sociale, facendo il medico del paese e l’insegnante per i bambini, e allo stesso tempo, scopre tutte le peculiarità di un mondo che è lontano dal sogno progressivo della fiorente società mussoliniana. Aliano è un paese all’apparenza senza umanità, dove la società è arcaica, e dove la povertà, la monotonia, e lo sfruttamento dei contadini la fanno da padrone. Un mondo dimenticato dal governo e dalla mano di Dio.

Al confino, gli esiliati non possono avere rapporti fra di loro, e non possono nemmeno avere rapporti stretti con le donne, ma nonostante ciò sarebbe difficile lo stesso averne, dato che si trovano in un contesto culturalmente e ideologicamente conservatore, e oltretutto non possono neanche allontanarsi da un determinato perimetro territoriale. Essi sono letteralmente ingabbiati, come i sostenitori filo-comunisti mandati in esilio sull’isola nell’intenso film La Villeggiatura di Marco Leto, uscito qualche anno prima, nel 1973.

Il dottor Levi scopre, vivendo nel quotidiano di Aliano, che il sogno del fascismo, basato su un forte nazionalismo e su una Italia florida, ricca e moderna è solamente un’utopia, realizzata principalmente tramite un’incessante propaganda coi media. L’Italia è spaccata in due, e i paesi del Sud rappresentano la parte marcia e dimenticata dal governo, la parte proletaria lasciata a sé stessa, e che viene sollecitata e rimembrata solo durante questioni politiche. Esemplificativa è la parabola degli italo-americani, che sono tornati nei loro paesini di origine, illusi dal fascismo che pubblicizzava l’Italia come nazione ricca economicamente e piena di occupazione per tutti. La società rurale, invece, sembra uscita da un dopoguerra: Non ci sono farmaci, non ci sono dottori, il salario dei contadini è minimo, lo sfruttamento lavorativo perenne, e l’esistenza è segnata da una profonda rassegnazione della popolazione, che non riesce ad immaginare un futuro senza povertà e malattie.

Il contesto sociale che rappresenta Rosi con una scenografia e una regia dettagliate, e dal ritmo posato ed accurato, è completamente scarno, privo di beni materiali e di ornamenti, sfacciatamente essenziale negli usi e nei costumi. Inoltre, tutti i personaggi sono impuri, come se fossero macchiati da un grande peccato originale: dal prete di paese ubriacone, al podestà sfruttatore ed egoista, fino ai paesani schivi, superstiziosi e introversi.

Eppure, in questo paese, nel quale “Cristo sembra che non si sia mai fermato”, c’è una profonda e nascosta umanità insita nelle persone, ingabbiata però da un’esistenza triste, futile e insensata. Il dottor Levi, cittadino borghese, diventa pian piano parte integrante del paese, e l’esilio si trasforma in un’esperienza di vita indimenticabile, che caratterizzerà il suo pensiero e i suoi modi di fare, ed accentuerà il suo disinteresse verso la politica dittatoriale, la quale è negli anni più luminosi. Politici, che si presentano solo nelle grandi occasioni, ossia durante comizi in piazza o con annunci generali da parte del Duce in radio; magistrale è la scena tutta girata in esterni e in piano sequenza dell’eco della voce di Mussolini, che proclama la vittoria delle truppe italiane in Africa, e che attraversa tutte le campagne di Aliano, interrompendo il lavoro giornaliero dei contadini, ammaliati da una carismatica voce che gli dà un briciolo di speranza per un futuro prosperoso.

Cristo si è fermato a Eboli è un film minuzioso, riflessivo, drammatico, sfumato, ma anche pieno d’arte: nell’incipit appare un quadro (Levi nella pellicola è anche un’artista) che raffigura una donna triste e malinconica in una campagna desolata, proprio come i contadini di Aliano. Il quadro diventerà il totem su cui girerà tutto il film, l’archetipo perfetto della sofferenza esistenziale della popolazione contadina e dei ricordi dello stesso Levi, che la pittura trasmette in immagini come fissazione di una realtà ormai passata e che provoca un’inattesa nostalgia.

Il film dimostra la duttilità di un regista come Rosi, che durante la sua carriera, si è saputo muovere su più fronti, costituendosi come una delle menti più geniali del cinema italiano, dal secondo dopoguerra in poi. Un cinema che mischiava arte e sociale, politica e cultura popolare, e che analizzava, attraverso un delizioso senso estetico, le tante e misteriose vicende epocali della nazione.


  • Diretto da: Francesco Rosi
  • Prodotto da: Franco Cristaldi, Nicola Carraro
  • Scritto da: Francesco Rosi, Tonino Guerra, Raffaele La Capria
  • Tratto da: "Cristo si è fermato ad Eboli" di Carlo Levi
  • Protagonisti: Gian Maria Volontè
  • Musiche di: Piero Piccioni
  • Fotografia di: Pasqualino De Santis
  • Montato da: Ruggero Mastroianni
  • Distribuito da: Rai
  • Casa di Produzione: Rai, Vides Cinematografica, Action Films
  • Data di uscita: 22/02/1979 (Roma), 23/02/1979 (Italia)
  • Durata: 270 minuti
  • Paese: Italia, Francia
  • Lingua: Italiano

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