Arti Performative

Compagnia LaFabbrica // La Trilogia dell’attesa

Renata Savo

La Trilogia dell’attesa diretta da Fabiana Iacozzilli ritorna al Teatro Vascello. L’avevamo già recensito, e ora – senza rinnegare l’altro – ne offriamo un secondo punto di vista.


 

Al Teatro Vascello torna in scena la Trilogia dell’attesa della Compagnia LaFabbrica di Fabiana Iacozzilli. Circa due ore e trenta di spettacolo sul tema dell’attesa: l’attesa di un ricco sposo da parte di una madre e una figlia sole nel primo capitolo della trilogia, Aspettando Nil; l’attesa di una madre di tre figli decrepiti che ammazzano il tempo facendo colazione e impegnandosi nelle loro attività preferite, come la madre assente aveva loro raccomandato di fare quel mattino stesso o forse settant’anni prima, o forse mai, in Quando saremo GRANDI! ; l’attesa di Hansel e Gretel nella nota fiaba dei fratelli Grimm in Hansel e Gretel – Il giorno dopo: il “giorno dopo” se le cose fossero andate diversamente, se Hansel e Gretel, allora, non fossero tornati a casa con le loro gambe e avessero invece aspettato la realizzazione di  un sogno, il giorno in cui il loro padre si fosse messo sulle loro tracce. Quel giorno mai arrivato, in cui Hansel avrebbe potuto mostrargli quanto era stato bravo e coraggioso, Gretel, invece, com’era diventata una brava “donnina” di casa; e il genitore avrebbe potuto dirsi orgoglioso delle sue creature.

Già recensita con toni entusiastici qualche tempo fa per “Scene Contemporanee” dalla mia collega Marcella Santomassimo [ http://www.scenecontemporanee.it/arti-performative/compagnia-lafabbrica-la-trilogia-dellattesa-1140 ], mi sono mossa anche io per andare a vedere questa trilogia di cui ho sentito più volte (bene) parlare.

Il primo capitolo, Aspettando Nil, come si può intuire dal titolo, è un esplicito omaggio a Samuel Beckett. Poetico e bello a livello visivo e nell’impostazione dei caratteri, sul piano della scrittura purtroppo non ha nulla a che vedere con gli stilemi dell’altissimo autore irlandese, la cui eco si risente solo nella formulazione di qualche battuta, per giunta forzata (c’è, infatti, un “rinnego d’essere nata”, o qualcosa di simile, molto generico e non troppo giustificato dal contesto); così come si è rivelata un po’ debole la scelta di togliere la “maschera” al personaggio della madre proprio alla fine di questo primo tempo, quell’espressione contratta del volto fino ad allora superlativamente mantenuta da Elisa Bongiovanni. La situazione offerta dal testo, con le due donne in rapporto assai ambiguo, si profilava densa di possibilità dal punto di vista drammatico, peccato che proprio sotto quest’aspetto la scrittura abbia mancato del tutto di originalità (l’idea dell’ “ultima sigaretta”, intensa e divertente, credo strizzi l’occhio a La coscienza di Zeno di Italo Svevo). Il rapporto tra le due donne, madre e figlia – che si manifesta simile a quello di due sorelle rivali in amore, se consideriamo le aspettative del pubblico felicemente disattese (non aggiungo altro per non rovinare l’effetto sorpresa – ben preparato – a chi andrà a vedere lo spettacolo in questi giorni) – avrebbe potuto senz’altro essere risolto meglio nella contrapposizione verbale. Tutto (o meglio, “nulla”) si svolge in modo assolutamente privo di tensione, semplicisticamente. Tuttavia, proprio il primo quadro si direbbe il più riuscito, seppure deludente quanto alla resa delle sue più ampie possibilità.  

Fortunatamente, l’attenzione dello spettatore è sostenuta sia in questa che nelle successive pièce dalla bravura mostruosa degli interpreti; dalla cura straordinaria con cui la regista ha cesellato le espressioni sui volti, la forma dei gesti, e, soprattutto, le voci: una vera e propria partitura sonora riempita da sussurri, ghigni, soffi, per un utilizzo davvero esemplare dei mezzi attorali.

Sul secondo quadro non mi soffermo. Stucchevole la parte in cui gli attori spostano strisce bianche sul pavimento accompagnati dalla musica: poteva essere eliminata del tutto, e l’economia dello spettacolo non ne avrebbe minimamente risentito.

Il terzo capitolo, su Hansel e Gretel, ha colto nel segno una buona idea: perché a differenza del precedente capitolo dove il conflitto drammatico scaturisce in modo poco convincente dal lancio di un bambolotto oltre la soglia entro cui era stato permesso dalla madre ai figli di stare, qui, nell’ultima pièce, proprio l’attesa diventa la fonte del conflitto drammatico: con la strega costretta a implorare i due bulli di ucciderla nel modo in cui essi desiderano, pur di porre fine a questa fiaba, dove ormai chi interpreta il ruolo dell’antagonista si trova allo stremo delle sue forze.  Anche qui, però, l’eccessiva reiterazione della cellula drammaturgica trasforma la buona idea nella sua degenerazione; lo spettacolo poteva avere maggiore efficacia durando meno, e nel contempo ne avrebbe beneficiato, risolvendosi in parte, il problema dei numerosi “bui” che hanno sottratto più tempo del previsto.

Nel complesso non si può dire che La Trilogia dell’attesa non valga la visione. Sono ben lungi dal dirlo.

Resta un po’ di amaro per uno spettacolo che poteva dare senza dubbio di più allo spettatore: bastava riporre le stesse attenzioni indirizzate al lavoro sulla forma esteriore al contenuto, per avere come risultato un autentico capolavoro. Forse soltanto un genio come Samuel Beckett poteva firmare un capolavoro sull’attesa (e difatti lo ha fatto), realizzando nella forma e pure nel contenuto il tragico e assurdo vuoto della vita. Solo Beckett poteva rendere pienamente, nel secco botta e risposta dei suoi personaggi, l’angoscia immutabile e immota, il peso e la “consistenza”, di questa “vuotitudine”. Qui non abbiamo nulla di tutto questo, ed è comprensibile. Uno sforzo in più e qualche piccolo accorgimento, come quello che si è detto più sopra sulla durata del terzo capitolo, però, avrebbero sicuramente reso questa Trilogia dell’attesa un piccolo gioiello dei nostri tempi. E chissà… forse  potrebbe ancora diventarlo.


Dettagli

  • Titolo originale: La Trilogia dell'attesa

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