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Il castello che c’è, per costruire “Castellinaria” ad Alvito. Intervista ai direttori artistici del nuovo festival

Renata Savo

Un nuovo festival prenderà vita dal 21 al 27 luglio ad Alvito (FR), nella Valle di Comino, «la terra di Nino Manfredi e Vittorio De Sica arroccata su una cresta montuosa, un luogo di pace e serenità che basa la sua economia sull’enogastronomia e l’agricoltura», come hanno ricordato i rappresentanti delle istituzioni locali presenti alla conferenza stampa che si è svolta questa mattina alle Carrozzerie n.o.t di Roma.
Un festival di “teatro pop”, Castellinaria, ideato e promosso dalla Compagnia Habitas in collaborazione con Ivano Capocciama e con il patrocinio della Regione Lazio, il Comune di Alvito e la Provincia di Frosinone. Il nome rappresenta la crasi esauriente tra due pensieri: la rocca di Alvito è a tutti gli effetti un castello sospeso in aria, che domina il paese e la valle dalla cima della collina, e poi, come spiegano gli ideatori, gioca «su un doppio significato. Da una parte c’è la voglia di progettare, di esplorare nuove forme di condivisione, di sognare in grande. Dall’altra riprende il modo di dire fare castelli in aria ma in questo caso girato in positivo. Si parte da una base solida, da un castello che già c’è». Presente alla conferenza stampa anche Tiziano Panici, co-ideatore insieme a Luca Ricci del festival romano Dominio Pubblico, che è intervenuto per sottolineare il legame affettivo tra il nuovo festival e la vivace scena nazionale Under 25, che proprio in questi giorni è di scena al Teatro India.

Le compagnie, in gran parte giovani – ma non solo – vengono da tutta Italia. Oltre agli spettacoli, tre laboratori: “Be clown” a cura di Andrea Cosentino; “C’era quella volta che” della compagnia bologninicosta; e “Lo sguardo nel castello” a cura di Andrea Pocosgnich (TeatroeCritica), un osservatorio teorico e pratico di critica teatrale. Molte saranno le iniziative “extra”, momenti di svago, con musica, attività ludiche e specialità culinarie. Ne abbiamo parlato con Niccolò Matcovich, Chiara Aquaro (Compagnia Habitas) e Ivano Capocciama, in questa bella intervista, lasciata tra un boccone e un bicchiere di vino.

 

Ivano Capocciama o Compagnia Habitas, da chi è partita l’idea di questo festival, e come vi siete incontrati?

Niccolò: Io ho conosciuto Ivano tramite Livia lo scorso Ferragosto, ad Alvito. Dopo neanche 20 minuti di chiacchierata abbiamo immaginato di organizzare qualcosa insieme.

Ivano: Sì, quasi istintivamente. Lo abbiamo pensato insieme.

 

E il passo successivo? 

Ivano: Abbiamo subito cercato di contattare istituzioni locali, il Comune, per capire se il territorio poteva essere pronto ad accogliere una proposta di festival teatrale come Castellinaria.

 

Perché, qual è il rapporto abituale che gli abitanti di Alvito hanno con il teatro?

Ivano: Nel territorio ci sono varie realtà amatoriali, non c’è di fatto una cultura teatrale anche se non mancano persone che si dedicano al teatro. Ci sono varie forme di spettacolo di associazioni legate a una drammaturgia tradizionale: De Filippo, Scarpetta e, raramente, anche Molière o Goldoni. Qualcuno si occupa anche di Commedia dell’Arte, ma non più di questo. Si può dire che ci sia da un lato un culto della tradizione fortissimo e dall’altro poco coraggio nella scelta del repertorio.

 

Chi sono i referenti di queste attività locali? Ci sono delle iniziative dal basso, degli spazi indipendenti, privati?

Ivano: Quello della mancanza di spazi per la creazione artistica sul territorio è un problema evidente. Ci sono dei paesi limitrofi totalmente tagliati fuori, senza un teatro e nemmeno un cinema. Prendi Sora, per esempio. O Isola del Liri: c’è solo un cinema-teatro, il Mangoni, ma è privato e costa troppo d’affitto; dentro, di teatro non viene fatto nulla.
Ci sono persone che si mettono in gioco, ma molti non hanno una formazione se non legata all’amatorialità, quella che un tempo si chiamava “filodrammatica”: ad Alvito c’è un’associazione storica di questo tipo, di cui io ho anche fatto parte, però poi me ne sono distaccato per dedicarmi alla messa in scena di miei testi. Sono ormai diciotto anni che lavoro sul territorio, è stata una scelta abbastanza radicale restare lì dove ho iniziato, e cioè in un minuscolo teatro di provincia che è il Teatro di Alvito. Solo dopo ho deciso di trascorrere un periodo in Danimarca.

 

Infatti prima che codirettore artistico di Castellinaria, sei anche regista. Di recente ho visto una tua versione di 4.48 Psychosis di Sarah Kane, con Rossella Rhao. Il testo, per usare un ossimoro, è a tutti gli effetti un classico contemporaneo, un classico dei giorni nostri. Tu hai costruito attorno al testo una partitura di gesti non facile, sebbene eseguita in modo pulito e preciso da Rossella Rhao, con un’interpretazione che ha toccato un ventaglio ricco di sfumature emotive, dal passionale al robotico, in un susseguirsi di epoche. In che modo hai approcciato la drammaturgia di Sarah Kane?

È un po’ quello che di solito faccio a scuola, dove insegno. Con Rossella Rhao c’è un progetto più ampio di base, che è quello di lavorare sulla riscrittura di opere. Di questo testo, o meglio, della scrittura di Sarah Kane – penso ad esempio a Fedra’s Love– volevo far emergere un aspetto in particolare: un forte retaggio della drammaturgia elisabettiana, qualcosa di molto antico, che io volevo tirar fuori come quando si fa un lavoro archeologico e si setaccia la terra per estrarre il fossile. Ci ho ritrovato una temperie anche abbastanza violenta, che poi è comune in tanta drammaturgia britannica contemporanea, anche in Edward Bond, per esempio. Da una parte c’è il dramma borghese, dall’altra la drammaturgia elisabettiana. Dall’altra ancora, la cultura punk inglese.

 

Con la Compagnia Habitas hai in comune dal punto di vista artistico la passione per ciò che è “pop”. Il sottotitolo del vostro festival, Castellinaria, è addirittura “festival di teatro pop”. Nel pop il passato si mescola al presente.

Ivano: Io credo che qualsiasi operazione teatrale sia una ricezione contemporanea dell’antico. Come quando metti in scena una tragedia greca, fai un’operazione di ricezione. A me non piace il teatro che sembra un museo. Ciò non toglie che anche il contemporaneo rischia di diventare museificato, a volte. Anche Testori o Bernhard rischiano di crollare nel cliché. Nel contemporaneo c’è qualcosa di antico che va portato fuori, e quindi, di conseguenza, nella drammaturgia antica qualcosa di estremamente contemporaneo che serve all’oggi per puntare un occhio sul presente.

 

Compagnia Habitas, vi siete costituiti solo nel 2016, ma già avete ricevuto menzioni e riconoscimenti di respiro nazionale. Tra queste una menzione al Premio Hystrio-Scritture di scena 2017 per il Trittico delle bestie scritto da Niccolò. Che cosa spinge una compagnia giovane ma che ha già all’attivo molti progetti artistici individuali a realizzare un festival insieme?

Chiara Aquaro (Habitas): La spinta comprende sia un aspetto casuale, l’incontro bello con Ivano di Niccolò e Livia [Antonelli, ndr] (che è originaria di Casalvieri, un paese vicino ad Alvito) avvenuto in occasione di Mefite – Il rito della Fenice, spettacolo che hanno portato in scena all’interno dell’edizione 2016 del Festival delle Storie, e sia, appunto, una domanda ossessiva, pressante, che è la seguente: «Perché facciamo questo mestiere?». Una domanda che ci facciamo a maggior ragione perché siamo giovani. Viviamo in una realtà, oggi, che ci risponde con ostilità e disinteresse, come se il teatro fosse un’arte superata o da superare, che debba per forza essere compenetrata dagli altri linguaggi per stare al passo coi tempi. Andare a cercare e a formare una comunità teatrale è il salto che ci sembrava possibile. Roma è il famoso calderone che ti ingoia e ti risputa, che però ha in sé tante possibilità. Il problema è andare a capire cos’è il pubblico e chi lo fa, come dialogare con lui. Per questo abbiamo scelto di fare un “teatro pop”: per farla finita con un discorso elitario sul teatro per addetti ai lavori, critici o artisti, con un pubblico che è sempre lo stesso, in una sala piena, sì, ma di gente che conosciamo. Vogliamo spezzare questo meccanismo e nel contempo tornare a scoprire le ragioni del fare teatro. Vogliamo confrontarci con un pubblico puro, che ci porti a capire perché esiste ancora il teatro. Continuiamo a danzare in un cerchio in cui le facce sono le stesse, perdendo il senso primigenio del nostro mestiere.

Niccolò (Habitas): L’altra questione che ci stava a cuore è quella dell’identità. Nel calderone romano ci sono tantissime identità diverse, piccole e specifiche, che si disperdono in un mare magnum caotico. In quest’occasione il Castello di Alvito ci consentirà di dare un’identità chiara al festival, di diventarne protagonista. E noi, con la nostra identità precostituita, ci mettiamo al servizio di questo luogo incredibile, che ha bisogno di essere valorizzato perché altrimenti sarebbe una rocca abbandonata a se stessa.

Giorgio Colangeli, affiancato da Tommaso Cuneo, è in scena con “E quindi uscimmo a riveder le stelle”, dalla Divina Commedia di Dante Alighieri

Quale sarebbe, altrimenti, ad Alvito la funzione attuale di questo Castello?

Ivano: Ha una funzione turistica molto blanda, perché non viene curato a dovere. Ha subìto nel tempo dei lavori di restauro, ma nessun’azione ha fatto in modo di creare un altro percorso turistico al suo interno. È rimasto famoso per due motivi: il primo è la produzione artigianale della polenta, motivo per cui si conosce in tutta Italia – ahimè – il secondo è per un festival, Castello Reggae, che è stato abbastanza importante, grazie al quale arrivavano ad Alvito artisti anche dalla Giamaica; purtroppo, per volere di alcuni questo festival non ha più avuto luogo.
Sostanzialmente, tutti sono contenti di avere un castello ad Alvito, ma in questo castello non avviene mai nulla, se non qualche manifestazione culinaria, perché sul nostro territorio predomina questo mito del cibo, quello doc e dop, e a livello culturale vi si fa pochissimo. Una tappa del Festival delle Storie si svolge lì, però il castello resta solo come una bella cornice, non come luogo parlante. Un luogo parla la sua lingua e dialoga con il contemporaneo solo se si riesce a dargli una voce. E questo l’ho visto accadere l’anno scorso, per esempio, mentre ero a Roccascalegna, in Abruzzo, dove ho visitato un castello meraviglioso – dove Matteo Garrone ha girato Il racconto dei racconti – in cui c’è un percorso turistico veramente stupendo, con un ragazzo coraggiosissimo che vi ha anche aperto una birreria, sempre piena di giovani, e si fanno spettacoli teatrali sia d’estate sia d’inverno.

Vulìe Teatro, “Semi” di e con Michele Brasilio e Marina Cioppa

Veniamo alla proposta artistica. Quale sarà il fil rouge di questa prima edizione?

Chiara: Abbiamo puntato su compagnie giovani con cui condividiamo formazione e intenti. Non c’è un fil rouge tematico, ma si è prestato attenzione a selezionare spettacoli che parlassero una lingua contemporanea in una forma che fosse adatta a quel luogo, a chi non ha una grande esperienza del teatro neanche da spettatore. Spettacoli che trattano temi che possano essere accostati anche al vissuto degli abitanti di quella valle, come ad esempio Questa è casa mia di Alessandro Blasioli sul terremoto in Abruzzo nel 2009, che fu sentito anche ad Alvito. Se scelte di questo tipo possono sembrare un’operazione facile per arrivare al pubblico, per noi hanno un altro peso: significa costruire uno sguardo rispettando la sensibilità del luogo. Portare il teatro contemporaneo come “invasori”, senza cercare alcun dialogo, sarebbe un’aggressione. La Valle di Comino è una terra stupenda dal punto di vista geografico, ma è anche una terra di lavoro, di fabbriche, dove tantissime bellezze sono lasciate a uno stato di degrado. Dal basso, noi abbiamo cercato di capire come creare questo sguardo comunitario. Per questo diciamo che sarà un’edizione “zero”, e che non ha senso se non ne seguiranno delle altre.

 

E come si inseriscono in questo tipo di sguardo i vari laboratori (“TeatroeCritica”, bologninicosta e Andrea Cosentino)?

Niccolò: L’intento è quello di creare una comunità che sia sincretistica di mondi diversi che si incontrano. Questo vale tanto per i laboratori quanto per una parte della programmazione. Per esempio, la seconda giornata del festival sarà dedicata a Fulvio Cocuzzo, che è un artista locale, di San Donato; questo fa sì che all’interno di una programmazione che verte sulla drammaturgia contemporanea ci sia comunque l’introduzione di un artista locale, un segno importante per accentuare il dialogo con la comunità. Vorremmo infatti che ogni anno almeno una giornata fosse dedicata a un artista locale. Lo stesso vale per i laboratori: pur restando aperti a partecipanti provenienti da tutta Italia, l’intento principale è di coinvolgere artisti e ragazzi della zona per creare uno scambio tra realtà diverse, fornire loro e agli artisti le condizioni ideali affinché sia possibile innescare qualcosa, anche solo tra gli stessi partecipanti, che vada oltre la settimana di laboratorio. Per esempio, abbiamo scelto di portare bologninicosta, oltre che per il loro percorso artistico, che stimiamo, anche perché da questo tipo di esperienze cercano di trovare nuove collaborazioni, maestranze.

Chiara: Non è un “compito”, fare un laboratorio per gli altri, ma una ricerca continua. Ci auguriamo una buona percentuale di domande da parte di partecipanti locali, per un’esperienza da cui sia possibile raccogliere degli spunti tematici, di riflessione o semplicemente poetici.

Ivano: È un po’ l’idea del “baratto”: io credo che si fondi una cultura teatrale quando puoi barattare delle esperienze con qualcuno che parla una lingua diversa, e questo non solo a teatro. Come quando Eugenio Barba e l’Odin Teatret arrivarono nel ’74 a Carpignano Salentino: davano alle persone del posto dimostrazioni del loro lavoro in cambio dello loro danze popolari pugliesi. Non è un’operazione di civilizzazione di un territorio, ma un vero e proprio incontro. È un fatto antropologico ancor prima che artistico e intellettuale in senso stretto.

 

Il festival è programmaticamente un festival “all’aria aperta” e ci sarà un castello, da cui anche il titolo, Castellinaria. Ci saranno altri spazi coinvolti?

Ivano: C’è il Palazzo Comunale. I laboratori non avvengono nei luoghi delle rappresentazioni, ma ci si sposta giù, nel paese.

Niccolò: Un altro spazio a uso e consumo del festival sarà quello antistante il Castello, dove ci sarà una serie di extra. Si mangerà, si faranno dei concerti, dei giochi…

 

Giochi?

Niccolò: Sì, abbiamo pensato di arricchire la proposta del festival con dei giochi molto semplici: carte, scacchi, giochi per bambini. L’intento è quello di creare una festa ogni sera, di cui lo spettacolo è solo una sua parte. Immaginiamo che a partire dalle 19 il borgo inizi ad animarsi, con musiche, carne alla brace, birra artigianale, giochi. Ci saranno anche degli “extra degli extra”, diciamo! Ci piacerebbe organizzare passeggiate a cavallo, escursioni, una veglia alle stelle. Cercheremo di rendere la manifestazione più completa possibile, facendola vivere prima, durante e dopo lo spettacolo.

 

[In copertina, “Abu sotto il mare” di e con Pietro Piva]

Il programma del festival è consultabile al link.

 

 

 

 

 

 

 

 

 



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