Cinema

Atlantique

Franco Cappuccio

L’apparizione del primo lungometraggio di Mati Diop, Atlantique, nella rarefatta atmosfera del concorso di Cannes ha portato con sé un senso di occasione e di storia. Recentemente non è passato inosservato che i custodi di molti grandi festival non si sono esattamente affrettati per includere donne o filmmaker di colore, o comunque voci emergenti – è raro per una giovane regista (la Diop ha 37 anni) finire direttamente nel pantheon di Cannes. Per quelli che prestavano attenzione, però, l’inusuale grado di anticipazione che circondava questo debutto lungamente atteso era non per ciò che la Diop rappresentasse ma per ciò che aveva già fatto vedere: si tratta di una filmmaker che si è, senza incertezze, presentata come un grande talento con una serie di corti e mediometraggi – Atlantiques (2009), Snow Canon (2011), Big in Vietnam (2012), Mille Soleils (2013) – che si aggiungono a un’opera distintiva e già formidabile.

Atlantique, meritato vincitore del secondo premio di Cannes – il Grand Prix – sintetizza gli stati d’animo intossicanti del precedente lavoro di Diop in una favola onirica di migrazione e trasmigrazione – sospesa tra realismo e fantasia, i vivi e i morti, il qui e l’altrove. Se c’è una sola costante nell’altrimenti irrequieto cinema della Diop, è la nozione di “intermezzo”: la condizione paradossale di esilio e dislocamento sperimentata sia fisicamente che psichicamente; la tensione tra l’essere in un posto e allo stesso tempo preoccupato per “la vita lontana”, come recita il tatuaggio di uno dei personaggi di Big in Vietnam. Questa condizione di mezzo descrive anche le qualità formali dei film di Diop, che mescolano un imprevedibile rapporto di documentario e finzione, risultando in una narrativa ibrida dove, come lei stessa l’ha posta, “nulla è vero e nulla è falso”.

Molti hanno notato all’inizio la Diop come attrice in 35 Shots of Rum di Claire Denis (è comparsa anche in Simon Killer di Antonio Campos e Hermia & Helena di Matias Piñeiro), e c’è nel suo lavoro un’inconfondibile affinità col cinema della Denis: la sua sensualità, il suo essere a suo agio con i corpi, la sua apertura al desiderio. Ma la Diop può essere anche utilmente raggruppata in un’ampia coorte di filmmakers trentenni – tra di loro Eduardo Williams e Gabriel Abrantes – che hanno frequentato la scuola d’arte francese Le Fresnoy e hanno ridefinito le limitazioni tradizionali della forma cortometraggio come opportunità per avere libertà. Differenti come sono gli uni dagli altri, i corti di Diop esplorano tutti le possibilità del troncamento e della riduzione, si crogiolano nelle ellissi e nel mistero, cercano nuove strutture e forme per raccontare.

Il corto di 15 minuti Atlantiques, che Diop ha fatto a Le Fresnoy, inaugura l’inchiesta birazziale della regista nella realtà e l’idea del Senegal, la terra ancestrale del padre. Nata e cresciuta a Parigi, Diop è la nipote di Djibril Diop Mambéty; suo padre è il musicista jazz Wasis Diop. Atlantiques emergeva sull’onda del cosiddetto fenomeno delle piroghe del 2005 e 2006, che vide migliaia di giovani uomini senegalesi affrontare la rischiosa traversata in mare per l’Europa, la loro missione riassunta da uno slogan Wolof, Barca mba barzakh, che è traducibile come “Barcellona o morte”. La “crisi dei migranti”, soggetto di innumerevoli film nello scorso decennio, emerge qui non come problema politico ma come uno state of mind, anche se Diop attraversa i duri fatti socioeconomici sottostanti.

Attorno ad un fuoco notturno sulla spiaggia, un oceano nascosto che urla dietro di loro, un giovane uomo di nome Serigne racconta ai suoi amici delle sue esperienze su una piroga (una nave da pesca in legno): il dolore fisico di essere sballottato dai venti e le onde; i sogni di casa e le allucinazioni degli uomini-pesce; l’assoluta certezza che l’avrebbe rifatto ancora. Dissolvenza a giorno e un’inquadratura di pietre tombali, che rivelano la data della morte di Serigne. È un flashforward o è stata la sua testimonianza – sulla quale torneremo poi – dall’aldilà della tomba? Diop strapazza ulteriormente il nostro senso del tempo con delle scritte a schermo su un “invasore notturno” che colpisce “durante il sogno profondo”, inducendo “il più grande desiderio di andare per l’oceano”. Questo racconto si rivela essere quello dei sopravvissuti del naufragio della Méduse del 1816 al largo delle coste della Mauritania, il cui seguito ispirò il famoso dipinto di Théodore Gericault La zattera della Medusa. Nonostante la disponibilità di formati ad alta risoluzione, Diop gira Atlantiques in video a bassa definizione, che si muove tra la soglia della visibilità e il limite della disintegrazione, abbinandosi alla precarietà che Serigne sta descrivendo. Le immagini finali sono primi piani di una lente di Fresnel che ruota, i suoi movimenti ciclici e la luce riflessa che si specchia con le astute operazioni formali del film.

Co-scritto con Judith Lou Lévy, che sarebbe diventata produttrice del lungometraggio di Diop, Snow Canon tenta qualcosa di simile ad una narrativa convenzionale, dettagliando un incontro tra Vanina (Nilaya Bal), una teenager umorale lasciata sola sulle Alpi francesi mentre i suoi genitori presenziano ad un funerale, e la sua nuova babysitter americana, Mary Jane (Nour Mobarak). Come la noia di Vanina sfuma nella curiosità e nel desiderio, le interazioni delle ragazze prendono elementi di role-play. Questo quintessenziale rito di passaggio è ancora più intenso nel suo dispiegarsi all’interno di un ambiente isolato, uno chalet con le sue persiane sempre abbassate, le sue stanze occasionalmente inondate di luce colorata. Diop giustappone questo intimo e temporalmente circoscritto dramma con uno geologico senza tempo, passando ripetutamente al terreno montano esterno, un panorama fisico che viene inserito per significare uno spazio interiore.

Con Big in Vietnam, co-scritto con il filmmaker Thierry de Peretti, Diop investiga non solo il sogno ma anche la fisicità del movimento e della fuga. Ritorna qui al tema dell’esilio, questa volta dalla prospettiva di una filmmaker franco-vietnamita, Henriette (Henriette Nhung), che si trova nel bel mezzo delle riprese di un adattamento de Le relazioni pericolose di Choderlos de Laclos in una foresta provenzale. Quando il suo Valmont improvvisamente lascia il set, Henriette fa la stessa cosa. Girovagando per le strade di Marsiglia, viene attirata dalle note di una musica famigliare in un ristorante vietnamita, dove scopre una comunità ad hoc e si unisce ad un contadino in un improvvisato duetto al karaoke. I personaggi rimangono in perenne movimento, vagamente sonnambulo: l’attore scomparso continua ad avanzare tra gli alberi, e Henriette e il suo nuovo amico continuano a camminare – osservati da una ruota panoramica mentre si intrecciano tra i bagnanti sulla spiaggia, come se fossero tirati da una forza più grande verso l’infinità dell’orizzonte.

Un regista meno fiducioso di sé si sarebbe tirato indietro dall’affrontare un’eredità pesante della famiglia così presto nella sua carriera, ma con Mille Soleils, Diop si confronta con il capolavoro di suo zio Touki Bouki (1973) a viso aperto. L’azione si sviluppa prima e dopo una proiezione all’aperto a Dakar di Touk Bouki, tenuta in presenza dell’attore protagonista del film Magaye Niang – ancora allevatore di bestiame, rivestito in denim e stivali da cowboy dalla testa ai piedi, e a cui Diop riserva un trattamento da star del cinema, introducendolo sulle note di High Noon di Tex Ritter. Nonostante ciò, il giorno porta affronti e rimpianti: mentre si sta recando verso l’evento, Magaye finisce col litigare con un giovane tassista, che protestava contro l’allora presidente Abdoulaye Wade e che colpevolizza la generazione precedente di compiacenza. I ragazzini in piazza rifiutano di credere che sia lui la persona sullo schermo. Si riunisce con i suoi amici, tra cui il padre della Diop, che si chiede perché Magaye – il cui personaggio di Touki Bouki anela ad una Francia idealizzata – non abbia mai lasciato Dakar (“Touki significa viaggiare e tu sei bloccato!”).

Il confronto con il passato spinge Magaye a telefonare alla sua co-protagonista a lungo perduta, Mareme Niang, che ora vive in Alaska. Diop facilita il loro reincontro con un brillante asso nella manica, trasportando Magaye in una dimensione innevata della mente. Mentre la conversazione tra Magaye e Mareme diventa più meditabonda, Diop intreccia le frasi immortali de La camera di Giovanni di James Baldwin: “Non hai una casa fino a quando non la lasci, e poi, quando l’hai lasciata, non puoi più tornare indietro”. Sia un omaggio che un seguito, Mille Soleils ingaggia una conversazione temporale con Touki Bouki, rivisitando ed espandendo l’universo del film pietra miliare di Mambety.

L’impresa complessa che la Diop porta alla perfezione a compimento in Atlantique è bilanciare l’ambiguità riccamente suggestiva dei suoi corti – la loro preferenza per atmosfera e avvenimenti obliqui – con i requisiti narrativi di un lungometraggio (in qualche modo in maniera confusa, il titolo del film è Atlantique, anche se forse la molteplicità dei nomi, suggerendo lo spostamento delle soggettività, è appropriata). Il lungometraggio della Diop ritorna alle ambientazioni del suo corto di dieci anni fa, ma questa volta assume la prospettiva di quelli rimasti indietro. La sua giovane eroina, Ada (Mama Sané), sul punto di compiere un matrimonio organizzato con il ricco, distaccato Omar, è innamorata di un operaio edile, Souleiman (Ibrahima Traoré). Alcuni giorni prima del matrimonio, Ada apprende che Souleiman e i suoi amici – tutti creditori di mesi di salario – sono partiti via mare per la Spagna. Nella notte della cerimonia, appena un’amica dice ad Ada che Souleiman è stato visto di nuovo qui, un incendio misteriosamente divampa nell’appartamento di Omar, lasciando un buco fumante nel letto coniugale…

Data la dicotomia della presenza e dell’assenza presente lungo tutta la sua opera, ha senso che il primo lungometraggio della Diop sia una storia di fantasmi. Già nel corto Atlantiques, i ragazzi attorno al fuoco sembrano come figure spettrali: “Sto parlando qui, ma la mia mente è altrove”, dice Serigne. Una febbre divampa per tutta la Dakar di Atlantique, infettando le amiche femmine di Ada così come l’ispettore di polizia, Issa (Amadou Mbow), che è stato incaricato di investigare l’incendio doloso. I ragazzi, che si presume persi in una tomba sott’acqua, sono ritornati a possedere le persone che amano e a risolvere vecchie questioni – o, nel caso di Issa, a dare ad Ada una possibilità di dire addio a Souleiman, un passo necessario verso l’autodeterminazione. Diop maneggia la svolta soprannaturale con attenuato realismo, aiutata dalla colonna sonora ultraterrena di Fatima Al-Qadiri, e abbracciando la credenza locale nei djinn, spiriti che possono prendere forme umane.

Nonostante le fioriture fantastiche, la Diop e la sua eccellente direttrice della fotografia Claire Mathon (che ha anche girato Lo sconosciuto del lago di Alain Guiraudie e Ritratto della giovane in fiamme di Céline Sciamma) conservano una specificità documentaria nel loro ritratto della Dakar contemporanea. La temperatura, la polvere e il clamore della città, palpabile di Mille Soleils, è ancora più pronunciata in Atlantique, che trova molta più struttura e vita nelle sue ambientazioni variegate: costruzioni abbandonate, locali sulla spiaggia, costruzioni nuove di zecca, modeste stanze da letto da adolescente. L’unica invenzione realizzata digitalmente da parte di Diop è un grattacielo futuristico, una grande e grossa intrusione sulla linea di costa e di paesaggio ispirata ad un progetto conosciuto come le Torri Gheddafi, una collaborazione proposta con l’ex leader libico che non è mai andata in porto. Diop è anche attenta alle tensioni di classe o religiose mentre sono messe in atto tra la gioventù contemporanea senegalese, toccando i conflitti tra Ada e le sue amiche più conservatrici, come la portatrice di hijab Mariama, e le più emancipate e materialistiche, come Dior, la barista di un locale notturno con vista sull’oceano che si rivelerà essere una location centrale.

L’acqua e il fuoco appaiono continuamente nel cinema degli elementi di Diop, ma non c’è una forza più forte dell’inesorabile spinta dell’oceano. “Attento, il mare non ha amici”, qualcuno dice a Mayage in Mille Soleils mentre si avventura troppo vicino all’acqua (il suo personaggio in Touki Bouki, ricordiamo, era sempre a guardare dalle scogliere verso il mare). Anche se ripetutamente invocato, l’oceano si vede una sola volta in Atlantiques, il corto. In Atlantique, il lungometraggio, è inevitabile, con gran parte dell’azione che trapela dal bordo dell’acqua, e le riprese dell’Atlantico che riempiono l’intera inquadratura servono come puntuazione frequente, come lo erano le Alpi frastagliate in Snow Canon. L’oceano appare a varie ore del giorno, a turno calmo e turbolento, un cammino o una tomba. In un motivo visuale ricorrente, inghiotte il sole, come se la luna sorgesse per esercitare la propria influenza sulle maree. Allertati del ciclo cosmico che governa il film – e noi tutti – ci ricordiamo del pianto di Serigne in Atlantiques: “Guarda l’oceano, non ha confini”. Le parole sono sia di cautela che di promessa, e parlano una volta di morte e una volta di vita lontana.


  • Diretto da: Mati Diop
  • Prodotto da: Judith Lou Lévy, Eve Robin
  • Scritto da: Mati Diop, Olivier Demangel
  • Protagonisti: Mame Bineta Sane, Amadou Mbow, Ibrahima Traoré
  • Musiche di: Fatima Al Qadiri
  • Fotografia di: Claire Mathon
  • Montato da: Aël Dallier Vega
  • Distribuito da: Netflix
  • Casa di Produzione: Les Films du Bal, Frakas Productions, Cinekap
  • Data di uscita: 16/05/2019 (Cannes), 02/08/2019 (Senegal), 29/11/2019 (Netflix)
  • Durata: 104 minuti
  • Paese: Senegal, Francia, Belgio
  • Lingua: Wolof

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