Arti Performative Mutaverso Teatro

Itaca/La bottega dei ritorni: la sospensione dell’incredulità

Renata Savo

«[…] venne accettato, che i miei sforzi dovevano indirizzarsi a persone e personaggi sovrannaturali, o anche romanzati, e a trasferire dalla nostra intima natura un interesse umano e una parvenza di verità sufficiente a procurare per queste ombre dell’immaginazione quella volontaria sospensione del dubbio momentanea, che costituisce la fede poetica».

Il poeta inglese Samuel T. Coleridge trovò così la maniera di descrivere gli effetti, diremmo oggi, della fiction sull’uomo: la sospensione della sua incredulità. Distaccata dalle logiche razionali e naturali, la poesia è difatti una lingua che aderisce alle sfumature oscure dei moti interiori dell’anima: occorre fede per tradurla.

Tralasciamo per un momento che con il progetto di residenza artistica “Itaca/La bottega dei ritorni” ci siamo trovati all’interno di una chiesa “sconsacrata”, e soffermiamoci sul senso veicolato dall’apparenza, dalla forma originaria dell’architettura: gli affreschi, le decorazioni, l’ampio vuoto al suo interno che riduce la voce all’eco. La prima cosa che viene spontanea al fedele, entrandovi, è quella di abbandonarsi a uno stato altro, di accettare alcune convenzioni con lo spazio; sospendere, anche qui, la sua incredulità.

Sin dal nostro ingresso nel luogo evocativo del sacro, il corpo si trova dentro una solennità pronta ad accogliere la parola dell’officiante: nell’osservare il silenzio, si accede a una dimensione in cui il tempo è cristallizzato, le identità si dilatano. Il teatro opera nella stessa direzione (a tal proposito, si legga From Ritual To Theatre dell’antropologo Victor Turner): gli attori sono officianti, gli spettatori astanti, l’azione diventa performance, messa in gioco di simboli, di gesti significanti. Nuove relazioni vengono costruite tra l’attore e lo spazio, tra l’attore e lo spettatore, tra questi ultimi e lo spazio.

Così, la piccola chiesa sconsacrata salernitana assurge a luogo di culto della dea immaginazione. Il sacramento, rigorosamente laico, è una comunione tra allievi di formazione differente, diretti dal maestro Maurizio Lupinelli. Unica, la via d’accesso al rituale: un raggio di luce emanato da un faro esterno alla porta di ingresso rischiara la zona dell’abside, per l’occasione tableau vivant di un’umanità composta da personaggi contraddittori persino nella loro stereotipia.

Lucida e al tempo stesso oscura, straniante, spersonalizzata: la scrittura di Fassbinder in Sangue sul collo del gatto riflette il mondo attraverso la lente deformante di un poeta. Lì, nella chiesa di Sant’Apollonia, spazio sconsacrato ma ancora perfettamente riconoscibile come luogo di culto, il poeta è un “dio” assente in mezzo alle parole di un uomo in abito talare.

Le parole dei poeti sono inafferrabili: difficile, se non impossibile, comprenderne appieno la logica sottostante, perché contengono un mistero noto solo a chi le ha composte, i loro discorsi si fanno lievi come aria in una bolla di sapone.

Nella prima parte dell’esito del laboratorio, i volti degli attori sono carne viva su corpi ingessati; poi, il gruppo si scioglie, lentamente. Le frasi diventano come dardi scagliati da un’unica fila di arcieri, sono sfoghi di frustrazione interiore che finiscono per dileguarsi in echi, sussurri di amara incertezza. Il passo si è fatto ieratico, come quello di un alieno proveniente da un’altra dimensione, consono a questo meta-mondo di incredulità sospesa che è la chiesa di Sant’Apollonia convertita in spazio scenico. Una donna con maschera di testa di maiale o, sospendendo l’incredulità, un umanoide con testa di maiale – quale sarà l’interpretazione esatta, e soprattutto, esiste un’interpretazione esatta del soggetto? – quasi sempre presente sulla scena di questo limbo marmoreo, rappresenta un elemento-chiave, surreale e dalle movenze stilizzate, necessario ad avere accesso allo straniamento drammaturgico: quando strappa la parola agli altri personaggi (leggermente variati rispetto al testo originale: un maestro, una ragazza, una signora, un prete, un soldato), esso pare conoscere l’umanità più a fondo degli stessi esseri umani. Lei, l’aliena Phoebe Zeitgeist del testo di Fassbinder, riserva per sé quell’ultimo grido di nonsense: un grido che tenta in modo paradossale di spiegare che cosa sia l’intelletto, e che rompe le fragili pareti della bolla immaginaria, procurando all’astante, cioè allo spettatore, una sensazione di libertà e di appagamento, simile a quella generata, in musica, dal ritorno alla tonalità di impianto nella forma-sonata di una sinfonia classica.

Questa prima dimostrazione performativa è parte di un lavoro in fieri che Lupinelli sta conducendo da anni altrove e che raggiungerà una dimensione più concreta prossimamente a Venezia, e poi, di nuovo, a Berlino (per approfondire, si legga l’intervista). Per la nuova stagione di Mutaverso Teatro ha rappresentato un inizio propiziatorio, che ha visto accadere a Salerno, in contemporanea, cose straordinarie per la città, la quale, come assai di rado accade, si è ricoperta di un manto di neve proprio nei giorni in cui questo gruppo di attori originari del salernitano (Marta Chiara Amabile, Andrea Avagliano, Damiano Camarda, Alessandra Crocco, Cesare D’Arco, Alessandro Gioia, Francesca Golia, Eloisa Gatto, Francesco Petti, Eduardo Ricciardelli, Maria Scorza, Victor Stasi, Luca Trezza, Annamaria Troisi, Antonella Valitutti) solitamente sparsi per l’Italia si è ritrovato a condividere l’esperienza di laboratorio con il maestro della scena contemporanea italiana.

L’esperimento di questa residenza artistica in patria al finale sembra essere riuscito bene: il merito va all’organizzatore Vincenzo Albano, che, consapevolmente, aveva chiamato gli attori per fare dono alla città di un primo tentativo di censimento delle risorse del territorio, da noi raccontato in diversi episodi.

La permanenza è stata un viaggio di ritorno che ha conservato il profumo dell’iniziazione, di un vento controcorrente. L’ultimo pensiero, a conclusione dell’esperienza, è che sarebbe bello poterci credere ancora, in futuro, risorse e vento permettendo, sperando che il tempo non sia tiranno, geloso della vita e della sua unicità.



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