Arti Performative Mutaverso Teatro

Intervista ad Elio Colasanto di Contromano Teatro.

Franco Cappuccio

Tra le nuovissime generazioni teatrali che si stanno affacciando sulla scena nazionale, sicuramente una delle più interessanti è Contromano Teatro, duo di Molfetta che fin dalla sua fondazione – 2014 – ha fatto parlare di sé, a partire dal suo spettacolo d’esordio Nella gioia e nel dolore, che viene finalmente – dopo tanto girovagare – presentata all’interno della stagione Mutaverso diretta da Vincenzo Albano a Salerno, di cui Scene Contemporanee è orgogliosa sostenitrice. E’ stata l’occasione per parlare con una delle due anime della compagnia, ovvero Elio Colasanto, con cui abbiamo avuto modo di parlare sia della loro poetica e del loro modo di lavorare che di una riflessione generale sullo stato del mondo delle arti performative in Puglia, dopo un decennio che possiamo definire di grande splendore.

Franco Cappuccio: Come nasce la scintilla che ha portato alla realizzazione di “Nella gioia e nel dolore”?

Elio Colasanto: In realtà siamo partiti da una diversità, ovvero da due modi differenti tra me e Alessia, che è l’altra parte di Contromano Teatro, sul perché ci si sceglie e perché si sceglie di stare insieme. Tra l’altro Alessia in quel periodo stava per sposarsi, per cui era un tema che stava vivendo, e da questa divergenza di opinioni è partita un’analisi che ha portato alla costruzione di una serie di condizioni che hanno dato via poi allo spettacolo, e in particolare ci siamo concentrati sulle dinamiche di un paesino in cui è sempre evidente la dicotomia sul se ci si lascia trascinare dalla corrente del paesino stesso e delle sue tradizioni e modi di fare oppure se si opera una scelta più ponderata alla base dello stare assieme; in un certo senso lo spettacolo ironizza su una serie di situazioni tipiche, soprattutto dalle nostre parti, che condividiamo o non condividiamo.

In quest’ironia il territorio stesso dove provenite è molto presente, ed è una componente inscindibile dello spettacolo…

Si, è vero, d’altronde anche nell’ironia traspare il nostro amore per questa terra, in quanto si riesce a fare ironia bene su qualcosa che di base si vuol bene.

Nella stagione di Mutaverso Teatro abbiamo visto tanti modi di approcciarsi allo spettacolo, dal testo scritto indipendentemente dalla messa in scena a processi di scrittura scenica in cui il lavoro sul palcoscenico è tutt’uno con la fase di scrittura ed inscindibile. Voi dove vi collocate con il vostro mettodo di lavoro?

Il nostro lavoro nasce sempre da un’idea su cui sperimentiamo e su una domanda o un’urgenza per noi importante, e a partire da questo costruiamo uno scheletro di quello che poi sarà lo spettacolo che però non è detto che poi seguiamo scientificamente, in quanto il tutto viene modificato continuamente dalla regia oppure ad esempio da delle improvvisazioni che costruiamo, ma il tutto ci serve come una traccia di lavoro. In ogni caso, per noi viene prima la drammaturgia e la costruzione dello spettacolo è fatta ad hoc per la nostra compagnia: i personaggi delle nostre opere ad esempio sono costruiti su di noi e sui nostri limiti e le nostre sensazioni, e non potrebbero essere rappresentati da altri.

La scenografia dello spettacolo è imponente, con questa grande torta nuziale sui siete adagiati voi in scena. Come mai questa scelta?

Volevamo un simbolo che rappresentasse il nostro spettacolo; nel nostro lavoro utilizziamo molto i simboli e la scenografia diventa per noi un motivo per rappresentare in maniera chiara e lampante il nostro simbolo. La torta nuziale l’abbiamo scelta perché oltre ad essere un simbolo tradizionale del matrimonio, è anche qualcosa di effimero, di inutile e non necessario rispetto al compimento stesso del matrimonio come concetto, e questa è l’occasione quindi per caricare questo simbolo con qualcosa che diventa grottesca. Inoltre, avere una scenografia imponente rappresentava per noi anche una necessità pratica vera e propria, in quanto lo spettacolo è stato costruito per essere rappresentato sia tradizionalmente nei teatri che negli spazi all’aperto come le piazze, e per questo motivo serviva una scenografia in grado di far vedere a tutti in maniera corretta lo spettacolo.

Voi siete nati nel 2014, ovvero al termine di un decennio straordinario per lo sviluppo delle arti performative in Puglia e della cultura in generale, grazie al grande impulso dato dalle politiche regionali. Ne avete tratto giovamento nel vostro lavoro e nel vostro rapporto col territorio oppure in realtà questa parentesi si è chiusa e si è ritornati ad un grado zero del fare teatro nella vostra Regione?

Partiamo dal presupposto che siamo fortemente convinti che una compagnia teatrale, comprese quelle cosiddette “di giro”, e forse anzi loro ancora a maggior ragione, debbano lavorare col loro territorio di appartenenza perché debbono rapportarsi con esso. Io vengo da delle esperienze pregresse che mi hanno fatto conoscere nello specifico, ad esempio nel mio lavoro con Fibre Parallele, i benefici che il sistema che la Regione Puglia aveva messo in campo per sviluppare le arti performative, a partire dal lavoro del Teatro Pubblico Pugliese fino al sistema dei Teatri Abitati e delle compagnie regionali in residenza, ecc. e poi l’ho vissuta all’esterno, quando sono andato a studiare in accademia fuori regione, e mi trovavo spesso ad affrontare discussioni con gente che mi chiedeva appunto di questa grande rivoluzione culturale e questo momento d’oro che la Puglia stava vivendo nelle arti performative. Noi però siamo nati nel 2014, quando tutto questo complesso fenomeno si è arrestato, e ha creati situazioni in cui ognuno vive da sé con quelle poche risorse che riesce ad avere: Teatri Abitati resiste solo per alcune compagnie che riescono ad ottenere fondi dai Comuni in cui risiedono, non ci sono più eventi e non c’è più la vitalità che c’era fino a qualche tempo fa; noi siamo stati un po’ più fortunati di molti altri in quanto col nuovo spettacolo, che debutterà a Giugno a Castrovillari, siamo riusciti ad ottenere un supporto illuminato da parte di un teatro nella nostra regione, ma si naviga a vista e non si può e non si riesce a svolgere una progettazione delle proprie attività a lungo termine.

Ma al territorio è rimasto qualcosa di questo decennio di sviluppo oppure è tornato tutto come se non fosse mai accaduto?

Qualcosa al territorio è rimasto dal punto di vista della crescita del pubblico, che in questi anni si è abituato a vedere anche un teatro diverso, e nella crescita professionale di molti artisti, che sono diventati poi nomi di punta del panorama nazionale italiano teatrale. Ci sono poi alcune compagnie, tra cui noi, che sono nate dopo, e che sono un po’ come fiori nel deserto o nel cemento; se non vengono curati e lasciati al loro destino, rischiano di morire, per via delle condizioni difficili in cui si trovano.



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