Arti Performative

Intervista a Eugenio Barba

Renata Savo

Uno dei più grandi esponenti della Storia del Teatro del Novecento è sicuramente il maestro italiano, ma ormai residente ed operante in Danimarca, Eugenio Barba, fondatore negli anni ’60 dell’Odin Teatret.

Teatro Vascello, ore 18.45. Sono arrivata un po’ in anticipo, come si è soliti fare prima di un incontro importante. Sai già che non lo dimenticherai mai. Prima di me ci sono altre persone, giornalisti. Tutti lì per intervistare lui, il maestro, Eugenio Barba: una di quelle figure che non hanno bisogno di presentazioni, perché il suo nome è da molti anni un simbolo della ricerca teatrale del secondo Novecento, anzi, della ricerca teatrale in assoluto.

Barba è ancora oggi, alla vigilia del mezzo secolo di attività, un esempio encomiabile di regista e di studioso.  

Ho la fortuna e l’onore di vederlo a Roma, in occasione della permanenza della sua storica compagnia, l’Odin Teatret, che dopo aver fatto il tutto esaurito con La vita cronica all’Auditorium Parco della Musica, è ora al Teatro Vascello con lo stesso spettacolo (dal mercoledì al sabato, fino al 17 marzo); una seconda occasione, quindi, per chi non ha avuto la possibilità di vederlo prima, o non ha trovato la disponibilità nei giorni scorsi (il numero di posti è limitato).

Oltre che con lo spettacolo, il gruppo è impegnato sempre a Roma con numerosi incontri, conferenze, “baratti” e performance. Per conoscere il programma dettagliato si può consultare il sito www.odinteatret.dk.

 

La prima volta, se non erro, che il lavoro dell’Odin Teatret fu presentato in Italia era il 1967, al Convegno di Ivrea. Vi esibiste con Ornitofilene, il vostro primo spettacolo come gruppo dell’Odin Teatret. Quale fu la reazione al vostro lavoro tra coloro che in Italia si vantavano di aver creato un Nuovo Teatro? Può raccontarmi qualche aneddoto, le sensazioni, qualche ricordo…

Ricordo che a quel Convegno vi era una passione, una tensione… perché tutti i partecipanti, pensi a Carmelo Bene, tutta quella che era l’avanguardia, le cosiddette “cantine”, erano presenti, ed era evidente che per loro quell’esprimersi vocalmente, verbalmente, era fondamentale. L’Odin non aveva molto di questo. L’Odin era andato lì pensando di fare una dimostrazione di lavoro, e quando noi facemmo questa dimostrazione di lavoro la gente rimase molto, molto perplessa e direi che ci fu un’accoglienza un po’ come quando dei cittadini vedono degli zotici arrivare e presentare qualcosa di un po’… un po’ cafone, ecco.

Penso che normalmente le persone di teatro quando discutono della loro professione lo fanno verbalmente, mentre la caratteristica, la specificità, direi, del nostro mestiere è di usare tutta un’altra comunicazione, che è fisica, fatta di dinamismi, di sonorità, di pause. Lì risiede lo sconcerto che ci fu a Ivrea.

In occasione di uno dei nove incontri di questo soggiorno romano, Iben Nagel Rasmussen ha ricordato come fosse stato fondamentale, per sviluppare la pratica del baratto culturale, cominciare a farlo attraverso un popolo estroverso, culturalmente predisposto a mostrare le proprie tradizioni performative. E quindi siete partiti dal Sudamerica. In generale, siete sempre rimasti soddisfatti dal modo in cui il pubblico reagiva alle vostre richieste di “baratto”, oppure ci sono stati episodi che vi hanno deluso, perché cercavate delle risposte diverse?

Il baratto è un accordo che viene stabilito in anticipo. Allora, se qualcuno viene e ti dice “Facciamo un baratto”, tu dici “Ma perché dovrei fare un baratto con te? Proprio non ho il tempo né sono motivato a farlo”. Quindi non è che la gente risponde immediatamente e con piacere all’idea di un baratto. Bisogna trovare qualcuno che è interessato a organizzare un baratto. Allora, per esempio, può essere un sacerdote che in questo modo riesce a riunire i giovani dicendo “Ah, questo gruppo straniero teatrale, che è interessato alle nostre manifestazioni di canto, danza, improvvisazioni poetiche, di cucina, di forme tradizionali, di giochi… loro ci fanno uno spettacolo, però vogliono essere pagati in questo modo”. Allora tu devi avere il sacerdote che comincia a motivare il suo ambiente: a volte può essere un attivista politico, a volte può essere un professore di una scuola che in questo modo riesce a mettere insieme sia alunni che genitori e, attraverso la presenza del gruppo teatrale che presenta qualcosa che è efficace a livello spettacolare, riesce a creare nuove relazioni nell’ambiente in cui lavora.

Sempre parlando di baratto culturale e pensando a quello che in questi giorni state realizzando a Roma, mi riferisco alla necessità di incontrare le compagnie di teatro e danza romane (dal 1 al 3 marzo, qui al Teatro Vascello),  si può dire che oggi, in una società che si è notevolmente alfabetizzata rispetto a quarant’anni fa, il vostro interesse si sia spostato, o almeno ampliato, dalle realtà in cui il teatro era assolutamente assente, al confronto aperto con i gruppi teatrali, e quindi, allo scambio di pratiche tra chi si nutre di teatro quotidianamente?

No, sin dall’inizio noi abbiamo avuto un interesse nello scambiare o nel conoscere il modo di lavorare degli altri. Noi siamo dei “dilettanti autodidatti”, quindi l’apprendistato ha avuto una grande importanza nella nostra vita, nel nostro sviluppo professionale. E quello di conoscere come anche gli altri, attori e registi, cercano di risolvere i problemi che esistono, obiettivamente, nel nostro lavoro, fa parte della nostra curiosità e abbiamo cominciato a farlo già negli anni ’70. Tanto è vero che tutta l’idea del Terzo Teatro, che io ho enunciato nel ’76, parlando appunto di questi gruppi che sorgevano e che si costruivano i loro training, i loro esercizi, il loro apprendistato, la loro professionalità, ha rappresentato uno dei momenti più interessanti di incontro, non solo con gli spettatori, ma anche con le persone stesse della nostra professione.

Mi interessa capire come nasce il personaggio dal corpo dell’attore. Il training aiuta l’attore a “prendere posizione”, ha scritto ne La canoa di carta, ma da dove nasce il training? Quali sono i punti di partenza? Un’immagine, il vissuto dell’attore…

Training significa “apprendistato”. Ora, apprendere a essere attore, che significa? Significa mettersi di fronte a un’altra persona, cioè uno spettatore, e non annoiarlo. Se io mi metto di fronte a un’altra persona e comincio a dire un testo, dopo pochi minuti questa persona comincerà ad annoiarsi. Allora, quand’è il linguaggio “artistico”? Quando fa sì che un attore è capace non solo di attirare l’attenzione, tenerla, ma addirittura portarla a un tal punto di interiorità nello spettatore fino a commuoverlo, oppure provocare un processo intellettuale, di riflessione: tutto questo è qualcosa che si “apprende”. Nella cultura del XX secolo gli attori devono apprendere a livello individuale; non ci sono tecniche, come per esempio nella danza, nel balletto classico, nella pantomima, che uno le apprende e c’ha il suo linguaggio, che poi sviluppa a livello personale, seguendolo oppure non seguendolo. L’attore deve inventarsi un suo modo di usare la propria presenza, la propria materialità, che è fisica, ma anche interiore. Il teatro non ha codificazione, è l’attore stesso che ogni volta inventa una codificazione personale… Che è assolutamente relativa.

In che modo, nel vostro ultimo spettacolo, La vita cronica, il testo è stato elaborato dalla compagnia – che vedo citata tra gli autori insieme a Ursula Andkjær Olsen?

La drammaturgia, la successione degli avvenimenti, sono io che l’ho creata: il lavoro con gli attori e il mettere insieme i diversi apporti di drammaturgia d’attore, cioè, questa successione di proposte concrete di personaggi che sono stati creati dai singoli attori. Non sono io che ho proposto dei personaggi, loro li hanno inventati, li hanno sviluppati. Uno di questi ha scelto il testo della poetessa danese, Ursula Andkjær Olsen, altri invece hanno scritto loro stessi il testo.

Sul comunicato stampa di La vita cronica si legge: “Non è l’innocenza né la conoscenza a salvare il ragazzo. Sarà l’ignoranza a fargli scoprire la sua porta. Tra lo sconcerto di noi tutti che non crediamo all’incredibile: che una vittima valga, da sola, più di ogni valore. Più di Dio”. Qual è il suo rapporto con la religione? Com’è cambiato nel corso degli anni?

Da bambino io ero credente. Era molto diverso. La messa era un mistero e un momento molto particolare, che non era considerato in categorie né di cerimonia, né di teatro, né individuali. Io credo che chiunque, credente o non credente, abbia delle categorie morali. Una delle categorie morali più importanti è stata data da Gesù, dai cristiani, che ha detto: “Non fare agli altri quello che tu non vuoi esser fatto a te”. E allora è questo: quando tu vedi quello che avviene oggi, perché vi sono vittime dirette, morti, gente che non ha la possibilità di accedere a un minimo di sussistenza alimentare, di scuola, ecc. … c’è anche un altro tipo di “vittima”: pensa alla tua generazione, pensa alla generazione dei giovani di oggi, che sembra condannata quasi a un grande olocausto, a un grande massacro. E allora, è contro questa situazione che si scatena, contro questo tipo di vittime, che immediatamente la mia sensibilità morale reagisce.

Che rapporto ha con le nuove tecnologie, nella vita?

A volte aiutano, facilitano molto. Creano anche dei cambiamenti profondi anche nel modo di pensare e di comportarsi. Alcuni di questi non li considero positivi. Per me, ad esempio, tutta la ricerca della conoscenza è stata una grande avventura: non c’erano libri, non c’era Wikipedia, non c’era Google, quindi lo scoprire qualcosa è stato uno dei momenti eccezionali del mio sviluppo. Oggi questa facilità di poter accedere a delle informazioni credo tolga molto del senso di tensione dello sviluppo, del cammino dello sviluppo in cui uno si immette. Prima era proprio una ricerca, a volte uno leggeva un nome e andava in biblioteca, chiedeva ad altri… adesso è tutto molto più facile. Può darsi che questo abbia delle conseguenze molto positive. Ma se io penso al piacere che ho avuto in questo lento accedere alla conoscenza… beh, allora commisero un po’ i giovani!

Da grandissimo maestro della ricerca teatrale, non posso non chiederle che cosa pensa del teatro contemporaneo, di chi definisce la propria opera un lavoro di “ricerca teatrale”, e magari lo fa sfruttando dei mezzi extra-teatrali. Il teatro dovrebbe rimanere un’arte “povera” (per usare un termine caro al suo grande maestro)? Lo chiedo perché oggi Kai Bredholt ci ha ricordato che il teatro può essere “tante cose”. Allora, cosa “non” è teatro?

In teatro come ogni disciplina artistica esiste una sola regola: non devono esistere regole. Il teatro se uno lo vuole fare “povero” lo fa povero, se uno lo vuole fare “ricco” lo fa ricco. Ognuno lo fa secondo i suoi bisogni, le sue possibilità e secondo il contesto in cui si trova. Trovo che esista una grande ricchezza di manifestazioni, e direi la quantità di persone della nuova generazione che si avvicina al teatro corrisponde alla stessa quantità del passato. Per cui, non è che c’è una caduta di “vocazioni”. Al contrario, può darsi, forse, che ci siano meno spettatori, ma la necessità di fare teatro è qualcosa che è evidente dovunque vada, che sia l’America Latina, che sia Asia o che sia Europa.

 



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