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“Il nome della rosa”: il giallo dei segni da Eco a Muscato

Valentina Crosetto

A un anno dalla scomparsa di Umberto Eco, il regista Leo Muscato rende omaggio a Il nome della rosa con la prima versione teatrale del bestseller realizzata da Stefano Massini

«Non aspettatevi ch’io vi parli troppo del Nome della rosa perché io odio questo libro e spero che anche voi lo odiate», raccontava Umberto Eco al Salone del Libro di Torino nel 2011. «Di romanzi ne ho scritti sei, gli ultimi cinque sono naturalmente migliori, ma per la legge di Gresham quello che rimane più famoso è sempre il primo». A trent’anni dalla prima edizione (1980), l’illustre professore ammetteva di non sopportare più di essere legato al suo bestseller più noto, quel romanzo storico multistrato come una torta nunziale – conte philosophique, giallo hard boiled, lusus da giornaletto umoristico, apologetica di Borges, inconsapevole precursore di Dan Brown e fratelli – che aveva elevato il semiologo di nicchia dal rango di accademico ignoto a quello di scrittore italiano più tradotto e venduto nel mondo. Eco si era scoperto ostaggio di un successo incontrollato, perché i gusti del pubblico sono la variabile assoluta di ogni industria, anche di quella letteraria. Eppure nemmeno lui aveva saputo resistere alla tentazione – umanissima e comune agli artisti di ogni epoca – di “rinfrescare” la propria opera con revisioni, correzioni e altre istruzioni per l’uso che la preservassero dalle corrosioni del tempo. Per mettere fine alle mille congetture formulate da critici e studiosi, le Postille a Il nome della rosa (1983) ridefinirono i confini di quel medioevo costruito ad arte mettendone allo scoperto contesto storico, fonti bibliografiche, citazioni, possibili varianti e alternative equivalenti. Ma l’ubriacatura di sollecitazioni sedimentate negli anni, propiziata anche dalla fortunata trasposizione cinematografica di Jean-Jacques Annaud (1986), perdurò a tal punto da indurre l’autore ad adeguare il testo d’origine persino al lettore moderno (l’ultima versione risale al 2011).

Non sarà questa la sede per approfondire le ragioni che possono aver spinto Eco ad aggiornare la Rosa ai tempi dei nativi digitali, ma il dibattito interpretativo innescato dall’opera letteraria aiuta a comprendere lo sforzo messo in atto dal primo ambizioso adattamento teatrale realizzato dallo scrittore e drammaturgo Stefano Massini (Lehman Trilogy) per la regia di Leo Muscato. Andata in scena in prima assoluta al Teatro Carignano di Torino dal 23 maggio all’11 giugno (e in tournée in Italia nella prossima stagione), la nuova coproduzione (Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Genova e Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale) ripercorre le losche vicende di un’abbazia benedettina del 1327 con la grandiosità di una messinscena fortemente evocativa, che compensa l’impossibilità di ricreare la minuziosità del dettaglio con lo scavo semiologico decifrato nelle Postille. Laddove il lavorio delle descrizioni riproduce nel romanzo i numerosi ambienti del tenebroso monastero, a teatro si supplisce con l’allusione creando uno spazio percettivo astratto. La serie di morti inspiegabili, gli indizi e le prove trafugate, i colpi di scena e gli oggetti misteriosi, i supplizi e la tragedia finale: tutta l’indagine di frate Guglielmo e del suo allievo Adso da Melk si compie entro i limiti di una scatola magica in continua metamorfosi (scene di Margherita Palli), dove le memorie dell’antico novizio – figura onnipresente quasi kantoriana – si materializzano con la ieraticità propria delle pale d’altare medievali. Di quei tempi bui così simili alla modernità, in cui Chiesa e Papato si combattevano con ogni mezzo e cominciava a incrinarsi il pensiero scolastico, il vecchio Adso (Luigi Diberti) riporta alla mente le eresie, i fanatismi, i roghi, ricostruendo la cosmologia onirica di un mondo perduto. Davanti ai suoi (e ai nostri) occhi scorrono i sai dei francescani e le vesti sontuosissime dei prelati di curia (costumi di Silvia Aymonino), i brumosi cieli notturni e le architetture opprimenti dell’abbazia, le cucine, il refettorio, la cappella, l’ossario, le celle, lo scriptorium, la biblioteca. Si odono melodie semplici e canti gregoriani eseguiti a cappella dagli stessi interpreti (musiche di Daniele D’Angelo) che traghettano lo spettatore all’interno di una dimensione rituale in cui la “parola”, divina ordinatrice fra i nomi e le cose, si manifesta nel suo potere incantatorio, mentre le videoproiezioni tridimensionali (di Fabio Massimo Iaquone e Luca Attilii), che si sovrappongono agli arredi e alla scalinata che troneggia nel mezzo come raffinati e certosini intarsi policromi, amplificano lo stupore dei protagonisti di fronte alle meraviglie del sapere celate nel ventre dell’edificio (sorprendenti i disegni dei marchingegni che fluttuano nell’universo, la babele di parole sconosciute, le fiamme della distruzione in cui vanno in fumo migliaia di preziosissimi manoscritti raccolti lungo i secoli).

Libro «fatto di brani, citazioni, periodi incompiuti, moncherini di libri», Il nome della rosa è però anche un buon poliziesco di artigianato basato su una trama avvincente. Padre Guglielmo da Baskerville, francescano, ex inquisitore e filosofo occamista, è il prototipo del detective illuminato dalla ragione (più che dalla fede), incaricato di scoprire colpevole e movente; e il fedele Adso ha esattamente la medesima funzione del dottor Watson nelle avventure di Sherlock Holmes. Malgrado gli infiniti labirinti fisici e mentali, Guglielmo dipana la «bella e intricata matassa» fino a scoprire che i delitti che hanno sconvolto il microcosmo monacense sono stati commessi per impedire la conoscenza di un volume proibito ritenuto sinonimo di eccesso e licenziosità: il secondo libro della Poetica di Aristotele dedicato alla commedia e al riso. Muscato non sembra tuttavia troppo interessato a restituirci l’intreccio attraverso l’azione: nell’ansia di affondare nel significato ultimo del testo (e di sottrarsi all’inevitabile confronto con l’eroe carismatico di Sean Connery nel film di Annaud) preferisce soffermarsi sulla sensibilità di Guglielmo (Luca Lazzareschi) nell’individuare i segni e interpretarli, costringendolo alla fissità dei ragionamenti lenti e faticosi con cui fronteggia la dialettica oscurantista ben più affilata del vecchio Jorge da Burgos (Renato Carpentieri). Guglielmo, in più di un’occasione, sottolinea l’impossibilità di trovare il giusto ordine, perché forse un ordine oggettivo nell’universo non esiste. Gli stessi segni sono paradossi, possono significare una cosa e il suo esatto contrario. Ma l’ammissione, rivolta a un giovane Adso (Giovanni Anzaldo) peraltro alquanto sbiadito, lascia intravedere più l’amarezza che l’ironia sottile con cui Eco insinua il messaggio problematico. Va meglio, invece, quando le profezie apocalittiche prendono corpo per bocca di intelligenze oscure come il despota inquisitore Bernardo Gui di Eugenio Allegri (già interprete del debole Ubertino da Casale), l’ansioso e prudentissimo “Abate di Dio” Abbone (Marco Zannoni) o il visionario decrepito Alinardo da Grottaferrata (Marco Gobetti). Ma è nella tenerezza verso quegli “ultimi” che diventano inconsapevoli vittime di terribili ingranaggi che il regista rivela maggior empatia: nel cellario Remigio da Varagine (Franco Ravera), bonario francescano in odore di eresia; nel suo bislacco servitore Salvatore (Alfonso Postiglione), che parla una strana lingua babelica, mista di dialetti volgari e di latino sgrammaticato; ma soprattutto in quella fanciulla senza nome (Arianna Primavera) costretta a darsi di nascosto ai monaci, il cui triste canto evapora dolcemente nella fiamma purificatrice della giustizia di Dio.


Dettagli

  • Titolo originale: Il nome della rosa
  • Regia: Leo Muscato
  • Anno di Uscita: 2017
  • Musiche: Daniele D’Angelo
  • Costumi: Silvia Aymonino
  • Produzione: Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Genova, Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale
  • Cast: Eugenio Allegri, Giovanni Anzaldo, Giulio Baraldi, Renato Carpentieri, Luigi Diberti, Marco Gobetti, Luca Lazzareschi, Daniele Marmi, Mauro Parrinello, Alfonso Postiglione, Arianna Primavera, Franco Ravera, Marco Zannoni
  • Altro: https://www.teatrostabiletorino.it/portfolio-items/nome-della-rosa-eco-massini/


Altro

  • Testo: Umberto Eco
  • Versione Teatrale: Stefano Massini (© 2015)
  • Adattamento: Leo Muscato
  • Scene: Margherita Palli
  • Luci: Alessandro Verazzi
  • Video: Fabio Massimo Iaquone, Luca Attilii
  • Assistente alla Regia: Alessandra De Angelis
  • Assistente Scenografa: Francesca Greco
  • Assistente Costumi: Virginia Gentili
  • Assistente Volontaria Scene: Katarina Stancic
  • Visto il: Giovedì, 25 Maggio 2017
  • Visto al: Teatro Carignano, Torino

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