Arti Performative

Emanuel Gat // Estro

Renata Savo

Undici danzatori campani hanno avuto la possibilità grazie a Ravello Festival di incontrare Emanuel Gat, coreografo israeliano di fama internazionale e di esibirsi sul palco del belvedere di Villa Rufolo al termine della residenza artistica


 

Al termine del periodo di residenza artistica che ha donato la possibilità di studiare e lavorare a stretto contatto con Emanuel Gat, coreografo israeliano di fama internazionale, undici talenti della Campania si sono esibiti sul palcoscenico trouvé più bello del mondo, quello che da 64 anni ospita il Ravello Festival, rinomata manifestazione, musicale per tradizione, ma che per la prima volta ha aperto le sue porte anche alla danza e alle nuove tendenze grazie alla co-direzione di Laura Valente.

E chi oserebbe negare il primato di tale bellezza, quando il “fondale” naturale del palco all’aperto di Villa Rufolo è un panorama sublime composto da cielo e nuvole su Costiera Amalfitana: a sinistra, le curve rocciose della strada statale, la selva mediterranea, le insenature con agglomerati di case, le ville a strapiombo sull’acqua smeraldina. Un paesaggio che aggiunge fascino al fascino della Villa. Dalle aiuole fiorite che circondano il belvedere restò ammaliato il romantico Richard Wagner, tanto da risvegliare in lui l’immagine di un giardino incantato per il secondo atto del suo Parsifal. L’”estro” creativo, drammatico e musicale dell’arte totale wagneriana proveniva dal culto di quella bellezza; se non altro, Estro è anche il titolo scelto da Emanuel Gat per l’esito del lavoro realizzato durante la residenza artistica nel borgo campano.

Qui, in questo progetto speciale di indagine sui processi di creazione coreografica – uno studio per una co-produzione tra Italia, Francia e Israele – trovano voce, però, altre derive di significato. Due sono, in sostanza: la prima riguarda l’ispirazione, l’ingegno tipico dell’artista; la seconda, il ghiribizzo, l’idea improvvisa e avulsa dal suo contesto. La creazione nasce, infatti, dal vuoto e dal silenzio, cioè, dal potenziale agibile di una dimensione spazio-temporale vergine e nuda, da cui il corpo scenico è eroticamente attratto. I danzatori desiderano penetrarla o contemplarla: si fermano, restano immobili in attesa di ispirazione come inerti spettatori dell’altrui danzare, in punti del palco sempre diversi. Vestiti di nero e con ai piedi scarpe da ginnastica di colori differenti è da lì che iniziano ad agire, da quella dimensione silenziosa e vuota, eppur densa di aspettative. Il movimento si accompagna al suono prodotto dagli stessi corpi: passi che strisciano sulla superficie del palco, gambe che si sollevano e fendono l’aria, piedi che battono a terra cercando l’appoggio necessario alle articolazioni inferiori per piegarsi in ampi plié. Le linee si spezzano in tutti i loro punti snodabili, ora per eseguire sequenze di movimenti fluide e a basso dispendio energetico (come se i performer fossero oggetti che cadono e si spostano per inerzia), ora passando attraverso figure più spigolose, a volte dal gusto esotico e orientaleggiante, altre volte, invece, evocative di certe pop-ular dance dei nostri tempi: l’hip hop, la disco dance.

Gomiti, polsi, collo, ginocchia, caviglie, schiena. Un’entità fisica scomponibile dotata di consapevolezza e baricentro è il corpo. I suoi movimenti, rapidi e scattosi, all’unisono o nella completa confusione del disegno coreografico sono estensioni di un moto interiore, di un ritmo afono che si guarda e si lascia esplorare come una radiografia, una materia scolpita nell’aria la cui essenza si comprende nella visione piuttosto che nell’ascolto. D’altra parte, il gruppo di danzatori sembra “ascoltare guardandosi” tra loro come membri di un’antica compagine orchestrale seguono il primo violino, basando il discorso melodico sull’esecuzione di quest’ultimo.

La creazione del movimento diventa poi fusione e omofonia interiore – tra i performer, e tra questi e gli spettatori – grazie alle musiche di Awir Leon. Alcuni si arrestano nello spazio a guardare gli altri, i quali rispondono sorridendo, con espressione compiaciuta. A canone, due-tre gruppi di danzatori eseguono movimenti all’unisono, il caos che aveva dato origine alla forma si converte in armonia. Poi, l’omografia della partitura coreutica si contorce ancora, in esaltazione del disequilibrio.

Questo movimento dal caos all’ordine e ritorno sembra aderire al gusto quasi sadico della ricerca di una soluzione; asseconda il piacere di ripristinare un’armonia perduta per poi farla slittare verso una nuova disgregazione. La scrittura della danza, la coreo-grafia, consiste non tanto nel fissare dei gesti, quanto nell’inventare le regole di un gioco, per questo la partitura coreografica viene anche definita score. Sta all’estro del coreografo capire la forma più consona da assegnargli o trasferire il meccanismo all’intelligenza propriocettiva dei danzatori. E si può dire che in questo caso Emanuel Gat sia riuscito a trovare le giuste regole, che, integrate alla musica – simile a un battito cardiaco su chitarra acustica, piano elettrico e archi – coincidono nell’osservare quali cose possono accadere all’interno di un progetto che mira alla fuga e alla ricerca di armonia mantenendo costante la compresenza in scena di agenti e voyeur; che tipo di sensazioni, di reazioni, si generano facendo incontrare in maniera spontanea i danzatori, lasciandoli cadere a terra – seguendo e provocando impulsi energetici come in certe coreografie di Martha Graham – e permettendo loro che, nel risollevarsi, trovino sostegno, attenzione e fiducia nell’altro; e ancora, cosa avviene spostando l’attenzione, attraverso la parola, su una parte specifica del corpo, facendo esplodere improvvisamente le aspettative che sottendono l’atto stesso della visione (figuriamoci l’esecuzione).

 


Dettagli

  • Titolo originale: Estro

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