Arti Performative Dialoghi

Itaca/La bottega dei ritorni: natura viva con “Lupo” senza pelo e senza vizio

Renata Savo

Il percorso artistico di Maurizio Lupinelli appare come una corsa arrestata da soste improvvise e piacevoli permanenze corrispondenti alla varietà di esperienze che lo hanno segnato: ciascuna ha rivelato una sua necessità nella composizione di un personaggio complesso, eccentrico e curioso, ognuna ha spostato un po’ più lontano il baricentro degli interessi artistici, costituendo al finale – o meglio, sino a oggi – una visione estetica del teatro che, seppur vorticosa, trova riparo nella poesia del disagio, nell’irrequietezza, e nella tensione a interrogarsi sull’ignoto e imperscrutabile agire.

«Un lavoro sempre avventuroso, votato all’esperimento più che alle certezze» (Massimo Marino, in La ferita dentro il teatro di Maurizio Lupinelli, 2002) e la voracità con cui si è fatto strada, attraverso gli incontri con le persone, la lettura di testi, saggi, di qualsiasi genere e sapienza umanistica, riflettono il carattere di un uomo schietto e affabile, pervaso d’amore inquieto verso gli universi da lui esplorati per consegnarli alla scena.

La sua carriera attorale affonda le proprie radici nel Teatro delle Albe ravennate: Ravenna, infatti, è la sua patria artistica, la culla di Nerval Teatro: la compagnia fondata insieme a Elisa Pol, baluardo di attori professionisti e diversamente abili psichici. Qui, il professionismo non è appannaggio dei normodotati, ma parte integrante della vita di tutti i componenti. Parlare di “diversità” con Lupinelli, infatti, non significa erigere delle barriere semantiche, tutt’altro: il disabile non viene escluso dal riconoscimento professionale, ma viene valorizzato e restituito artisticamente nella sua autenticità espressiva, lasciato libero di sbagliare e di confrontarsi senza filtri con la realtà circostante, crescendo, mutandosi con essa.

Nerval Teatro si accosta a quella particolare linea dei “teatri delle diversità” del nostro tempo, fenomeno in crescita in Italia, che nel restare ancorati al senso primario della pratica teatrale, e cioè alla “costruzione di identità”, vi adempiono con l’intenzione di ridurre la percezione della diversità, aiutando a «una reciproca conoscenza, che non significa appiattimento delle identità, ma riconoscimento e accettazione entro il nuovo spazio di condivisione»: in questo modo di rapportarsi alla scena, la diversità emerge solo in quanto «conseguenza di stereotipi e pregiudizi che si costituiscono all’interno di un ambiente di vita» (Alessandro Pontremoli, 2005, p. 54). Per questo motivo nel teatro di Lupinelli non si fa distinzione tra il lavoro con attori normodotati e attori disabili, perché il teatro tutto, accogliendo una definizione che è lui stesso a citare, è «differenza» (Antonio Attisani, 1988).

Maurizio Lupinelli, per gli amici “Lupo” – senza pelo e senza vizio – è sia il regista che lavora in solitudine sia quello che accompagna le idee degli altri, aiutandoli a partorirle (tra questi, Renato Bandoli delle P.Le.I.A.Di di Lerici, in provincia di La Spezia, con cui ha realizzato diverse produzioni, l’artista Roberto Abbiati, con cui ha realizzato un bellissimo spettacolo di teatro ragazzi dai colori pastello, Carezze); è sia il regista che con il suo Marat ha inaugurato il Teatro La Cucina nell’ex Ospedale psichiatrico Paolo Pini, sia il maestro della scena nazionale, accademica e non. Da anni, Nerval Teatro ha trovato residenza ad Armunia, nella toscana Castiglioncello, da vent’anni teatrocastello di incontri, tra artisti, critica e pubblico; e recentemente ha aperto una collaborazione con l’Accademia Teatrale Veneta, dove sta portando a una forma ancora più organica il progetto su R. W. Fassbinder, su cui insieme agli allievi dei suoi laboratori itineranti sta riflettendo da diverso tempo, in Italia come all’estero. Ritroviamo, quindi, Maurizio Lupinelli anche qui a Salerno come vate prescelto da Vincenzo Albano per tenere uniti a “Itaca/La bottega dei ritorni” i giovani talenti originari del salernitano sparsi per l’Italia, e in una breve pausa di lavoro, tra il vociare degli allievi che rimbomba nella piccola chiesa di Santa Apollonia, ci intratteniamo in una conversazione-confessione reciproca, che rivela subito a noi quanto fossimo già vicini pur essendo distanti.

 

Itaca/La bottega dei ritorni è un progetto che sotto il guscio esteriore di un workshop da te condotto tenta di ricordare ai partecipanti quali sono le proprie radici, dando loro la possibilità di incontrarsi nella loro terra, magari gettando delle basi per possibili connessioni future, qui o altrove. Si può dire che, in questo modo, tu stesso hai messo radici in tanti terreni diversi. Dove si trova la tua patria non artistica e dov’è che oggi artisticamente ti senti più a casa.

Sono nato a Ravenna, in tutti i sensi, oltre che artisticamente. Il mio percorso inizia come autodidatta, lavorando in solitudine, prima di incontrare Marco Martinelli ed Ermanna Montanari con cui ho lavorato sedici anni. Con Marco abbiamo creato la non-scuola, Aristofane a Scampia, Arrevuoto. In generale si può dire che io abbia sempre ricercato il mio sguardo rispetto all’arte in quei luoghi particolari in cui c’era del “disagio”: da Scampia ai manicomi, ho lavorato con i disabili, con gli adolescenti problematici. Sono quei mondi in qualche modo ad avermi sempre toccato, nel mio agire sia come regista sia come attore. Ravenna rimane comunque una tappa fondamentale del mio percorso – e ci abito tuttora – anche se ormai dal 2006 con Elisa Pol abbiamo fondato Nerval Teatro che si porta dietro sempre quel filo rosso di lavoro, quell’esperienza che, anzi, ho ancora di più approfondito in questo percorso, sia di luoghi particolari sia, soprattutto, di drammaturgia di un certo tipo, che ha che fare con il discorso della “ferita” [per approfondirlo si legga la raccolta di interventi in Marco Menini (a cura di), La ferita dentro il teatro di Maurizio Lupinelli, Ravenna, Angelo Longo Editore, 2015, ndr]. In realtà, negli ultimi anni, Armunia, a Castiglioncello, è il luogo che mi ha dato la possibilità di portare avanti i miei progetti e quindi di svolgere un lavoro sul territorio che faccio da anni con un gruppo di ragazzi disabili, ed è strambo che un centro teatrale importante come Armunia che porta avanti un’esperienza sia di quel tipo, spendendo soldi, investendo nelle produzioni, nello stesso tempo ci dia la possibilità di andare in scena con questi ragazzi disabili anche all’estero, tant’è che siamo stati sulle scene nazionali francesi insieme a loro.

Eri già stato a Salerno prima d’ora. In quale occasione sei passato da qui e che effetto ti ha fatto tornarvi?

Ci sono stato con il Teatro delle Albe, credo nel 2002 o 2003, con I Refrattari dov’ero in scena con Ermanna Montanari e Gigio [Luigi Dadina], attore storico del Teatro delle Albe, con la regia di Marco Martinelli. Si iniziò una collaborazione con Ruggero Cappuccio che aveva la direzione artistica del Teatro Verdi, e fummo ospitati anche dal festival di Benevento nel 2004 o 2005. A Salerno sono venuto due o tre volte a far spettacoli, e quest’anno mi ci ritrovo perché sul mio percorso ho incrociato quest’anno Vincenzo Albano, ci siamo conosciuti e l’ho chiamato a Castiglioncello a vedere delle prove, quando ero in residenza a Santarcangelo è venuto… poi gli ho raccontato di questi progetti che stavo facendo su Fassbinder, che ho realizzato l’anno scorso a gennaio a Berlino, dove abbiamo lavorato per tre settimane con un gruppo di attori provenienti da tutta Europa, in un luogo stupendo, un’ex birreria gestita da un gruppo di artisti, scultori, cineasti. E abbiamo fatto questo laboratorio che alla fine è stato uno spettacolo, perché a Berlino, diversamente che in Italia, chi crede nel tuo progetto ti dà veramente tutto, ed è come se lì io avessi fatto una grande produzione. V’è stato fatto anche un documentario: Graziano Graziani è venuto su a Berlino e ha realizzato questo documentario dove l’idea era non solo di testimoniare l’idea, il laboratorio, ma anche di mettere in relazione gli spazi off che continuamente vengono allestiti a Berlino, e che guarda caso sono ideati da architetti italiani che vivono lì. Per cui durante questo documentario ci sono stati anche operatori italiani che vivono a Berlino, architetti italiani che vivono a Berlino, e tutto questo era parte dei temi d’interesse affrontati Graziano, che è un caro amico. E poi questo progetto lo sto portando anche a Venezia, dove ho iniziato questo “ponte Berlino-Venezia”, dove sto lavorando per un paio di mesi all’Accademia Teatrale Veneta, alla Giudecca, e c’è questa pazzia a maggio per un mese dove finalmente farò questo lavoro, Sangue sul collo del gatto, con tanti attori, allievi del terzo anno dell’Accademia e attori tutti italiani. Sarà un evento al Canal Regio, in zona Sant’Alvise, dove ci sarà questo spettacolo usando la “scenografia vivente”, la più costosa e la più bella che ci sia di quell’angolo di Venezia! Per cui, quando Vincenzo mi stava raccontando le cose che stava facendo qua, con la fatica, io gli ho detto «Ma perché non facciamo un laboratorio – che poi non è un laboratorio, ma si lavora cinque giorni insieme – per uno spettacolo?». Il fatto che ci siano molti attori che vivono fuori, ma che qui rientrano a casa durante le vacanze, è un segnale molto forte per Salerno. Mi sembra che Vincenzo abbia capito bene quello di cui c’era bisogno.

Citando Marco De Marinis, con cui si potrebbe essere o non essere d’accordo, «il teatro è, può essere, tanto più terapeutico (o comunque efficace, benefico) quanto meno si pone come obiettivo esplicito, immediato, la terapia». In passato hai affermato che per te il teatro non può essere in alcun modo terapeutico. Perché? 

Perché ho scoperto lavorando con queste persone che, proprio, “fa male”! Non può esserlo.

Quindi, il teatro fa ammalare!

Non fa ammalare, ma ho sempre pensato che avesse a che fare con degli esseri umani. Non ho la maschera per dire di queste persone “poverini!”. A me non interessa cercare questi luoghi perché c’è la ferita di S. Stefano… no. È perché proprio mi piacciono, perché in loro o in certi spazi c’è l’antichità. C’è un libro bellissimo, un saggio, di Antonio Attisani, Teatro come differenza. Ecco, lì c’è tutto. Quelle persone sono degli esseri umani non filtrati, sono molto legato a loro, e quando sono con loro la prima cosa che penso è «L’opera d’arte». Io faccio la cosa inversa che fanno altri artisti che si caricano le “sfighe” degli altri. Se hai visto Le presidentesse, c’era Federica Rinaldi… lo spettatore non deve fare il finto moralista, deve sapere che lei, disabile, è consapevole mentre dice certe cose, anche parole scurrili: devi sentirle dire da lei, voglio costringerti a sentirle. Questo per me è il cosiddetto “teatro politico”. Io litigo con gli educatori… per dirti, per me sarebbe stato normale portare Federica qui, farla lavorare con noi. Ora con loro sto lavorando su Beckett.

Spesso gli operatori rappresentano un ostacolo al fare artistico dei teatranti che lavorano con i diversamente abili…

Noi, pensa, li abbiamo eliminati. I nostri attori stanno in scena da soli. Perché possono fare tutto loro. Io questa invadenza degli educatori non la sopporto, queste persone non sono lasciate stare in pace, non sbagliano e non imparano. La terapia diventa terapeutica nel momento in cui diciamo che non si fa terapia. Federica Rinaldi, con la sindrome di Williams, che purtroppo se vede una striscia a terra si blocca, cade, adesso ha capito che non deve averne paura.

È un po’ come i genitori che tengono i figli sotto una campana di vetro…

È proprio così.

Quale valore esprime nella tua visione estetica la “diversità” sulla scena, come la affronti drammaturgicamente? Penso a Lenz Fondazione: spesso si affrontano drammaturgie, testi, in cui la follia è già presente, o comunque, nei nuclei drammatici delle fonti sono già insiti stati d’animo alterati o elementi visionari.

No, non è il mio approccio. Io ho fatto anche Che cosa sono le nuvole? di Pasolini, giocato sulla comicità, o Beckett, che sì è tragico, ma anche ironico, e lì ci sono delle figure stralunate, dove si gioca. Non c’è bisogno di sottolineare il tragico, viene da sé, come una maschera, come Totò. Che cosa sono le nuvole? lo avevo mescolato con La ricotta, e avevo un personaggio che faceva Stracci. C’era il gioco, si cadeva, si sbagliava; invece di fare Otello facevano Giulietta e Romeo. Si gioca, e allora si sbaglia: funziona. Poi, è chiaro, quando ho portato in scena un testo come Le presidentesse ho avuto il pensiero di Federica; se vai a vedere, la Maria è una ritardata, ma con lucidità, e lei si diverte a fare quel personaggio così particolare.

I personaggi che affollano i testi teatrali di alcuni autori, come Fassbinder, della drammaturgia tedesca o austriaca novecentesca o contemporanea, producono in te un senso di spiazzamento. Spesso scegli autori o testi non strettamente teatrali (lo stesso Fassbinder, Herbert Achternbusch), ma che hanno dei nessi con il cinema (penso a Che cosa sono le nuvole? di Pasolini). In generale, sembra che tu rifugga tutto ciò che è semplice, che la scelta di un autore, di un testo, sia una sfida tra te e l’autore, tra te e il mezzo con cui ti confronti (e tra me e me sono curiosa di sapere come risolveresti l’enigma di un testo quasi romanzesco come Il gioco del chiedere di Peter Handke). Il teatro per te è uno strumento di semplificazione, di chiarificazione, del reale?

È quello che sto cercando di far capire a loro [indica gli attori]! Di Peter Handke ho letto solo un testo, Autodiffamazione. La cosa che mi colpisce di questi autori, di metterli in scena, è che cercano il limite delle cose. Herzog a un certo punto scrive una lettera dove dice «Non faccio più opere. Faccio film», e così Wenders, anche se è durato di più. Non si ostinano a fare cose che non sentono più di essere in grado di fare.

E come si lavora con un gruppo così ampio e diversificato di attori? Conoscevi già qualcuno di loro, per caso?

È bellissimo, lavoriamo bene e oggi ho detto loro che sto cercando attori per Venezia. Perché saranno trenta, quaranta, gli attori, in tutto, per il progetto veneziano.

Certo, far capire Fassbinder a questi attori in cinque giorni…

Ma non è che lo capiranno… Anche perché ancora non l’ho capito io!



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