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Giacomo, i mestieri del teatro e la nascita di Anonima Sette

Chiara Nicolanti

Abbiamo conosciuto Giacomo Sette, fondatore della neonata compagnia Anonima Sette. Giacomo ha meno di trent’anni e un’invidiabile esperienza con i mestieri del teatro alle spalle. Soprattutto, però, ha talento nella scrittura

Drammaturgo, regista, attore, ma ancor prima tecnico, scenografo, direttore di scena e tuttofare nei teatri off di Roma, dintorni, e non solo, Giacomo Sette vanta, senza aver ancora toccato i trent’anni di vita, un’esperienza invidiabile sul campo.

L’eterogeneità è forse la chiave del suo percorso, fatto di studi accademici e assolutamente indipendenti, frequentazione di seminari come quello di Eugenio Barba presso il Teatro Potlach, collaborazioni con personalità come Filippo Luna, Enrico Roccaforte, Gianni Staropoli, Simone Amendola e Valentina Gristina, e della partecipazione alla creazione di spettacoli presso gruppi teatrali già rodati, o emergenti.

Insieme a Martina Giusti porta in scena il testo B/Ride, che è vincitore della rassegna Pillole Under 25 del Teatro Studio Uno e secondo classificato al premio Autori nel Cassetto Attori sul Comò del Teatro Lo Spazio, e viene selezionato anche a Macomer (in Sardegna) per la residenza artisti del Festival della Resilienza.

Giacomo Sette ha una personalità variopinta, le cui tinte dalle gradazioni inaspettate incontrano stoffe polverose, sbiadite. Il comico, l’assurdo, il tragico e il disperato si incontrano nei suoi testi, dando vita ad atmosfere particolari, in cui l’eco di altre epoche risuona nelle musiche scelte per alcune scene…

Sì, ho un’indole piuttosto romantica. Nel senso classico del termine, cioè, roba da fine Ottocento, da scrittori russi, da Conrad e Lovecraft, cose così. Adoro la musica d’atmosfera. Rock, punk, metal, dark elektro… purché ti restituisca una grandezza umana, una morbidezza, un qualcosa di… puro, vivido, dolorosamente umano. Ciò non fa di me un dark o una persona cupa, anzi. Adoro la vita nella sua totalità. Quando ti fa bene e quando ti fa male. Vedo sempre il lato luminoso delle cose… eppure godo per il lato nero della musica, che mi ispira tantissimo. Realtà neo-folk come Of the Wand & the Moon, Rome o la musica concettuale dei Laibach, fino al black metal più inascoltabile sono per me fonti inesauribili di ritmo, atmosfera e… colore. Questo grumo di roba oscura e di gioia di vivere si sposa con la passione per l’assurdo, il brillante, talvolta il demenziale. Fosse per me farei solo cose divertenti. Ironiche, forse, più che demenziali. Infantili, a tratti. Mi piace portare alla luce il lato comico del tragico… adoro la goffezza!

Ci sono delle immagini, nella tua infanzia, che pensi abbiano veicolato, per prime, questo tuo gusto particolare per il “goffo”?

Questa è una domanda difficile. I miei, quand’ero piccolo, si rifiutavano di farmi vedere i cartoni Disney, non ho mai capito perché. Preferivano farmi vedere Stanlio e Ollio. Delle loro comiche adoravo il modo in cui cadevano e cominciai ad imitarlo. L’immagine di Ollio che ne I fanciulli del West cade in acqua tutto vestito e si lamenta con Stanlio per la condizione del suo abito nuovo costituì una vera svolta per me. A quattro anni rompevo le scatole ai miei amichetti costringendoli ad improvvisare in salone situazioni che trovavo comicissime, ma che forse non lo erano.

Pensi di essere un artista più visivo, in quanto legato al teatro come immagine vivente, o più legato alla parola, in quanto scrittore di testi teatrali?

Forse la mia sensibilità artistica è più percettiva o cinestetica, non lo so. Diciamo che quello che cerco furiosamente è una particolare sensazione che io chiamo di “totalità della vita”, di colore… un mucchio di emozioni: un pugno nello stomaco e un bacio sulle labbra. Qualcosa che sia vita davvero e che se proprio devo portare ad un livello “fisico”, appunto, possa essere accostato alla sensazione di chiudere gli occhi circondati da qualcosa di liquido e di caldo. Di accogliente. Non so se questa sia propriamente la vita o la mia “sensibilità artistica”, ma mi piace vederla così. Di fatto scrivo. Scrivo anche quando dirigo o quando recito. Scrivo. Per me tutto è scrittura, anche un’immagine. Non c’è alcuna distanza tra la vita, la visione e il racconto.

A teatro certe situazioni che vedi nei film non le puoi rappresentare, ma le puoi raccontare. E le parole sanno assumere qualsiasi forma e restituire qualsiasi sensazione. Per parola intendo anche quella che usi con l’attore, nel dirigerlo. Anche quella è drammaturgia. Uno spettacolo fisico, muto, danzato, agito da un attore che è stato diretto con parole giuste, efficaci, vive e belle lo riconosci. Nel suo movimento leggi la drammaturgia che lo struttura. Invisibile ma persistente.

C’è un fil rouge nella tua produzione autoriale? Un messaggio univoco sotto i tuoi testi? O ancor prima, le tue opere presuppongo l’esistenza del messaggio?

Credo di no. Rispondono all’esclusiva esigenza di raccontare una storia che puoi capire o con la testa o con la pancia… o con tutte e due. Forse vogliono solo dire: «esci fuori: c’è qualcosa oltre l’ansia e la paura».

Nel tuo teatro, il pubblico che funzione ha? Ricopre il ruolo di destinatario o ha assunto altre funzioni?

Il pubblico è l’origine e il fine del teatro. O almeno, lo è per me. Non mi interessa il tipo di pubblico, quando scrivo. Non penso: questa è una commedia per il pubblico generico, questo è uno studio per gli addetti ai lavori. Penso «questo è uno spettacolo per il pubblico». Non faccio teatro per me stesso. Se dovessi fare qualcosa per me stesso cercherei un lavoro con una paga sicura. E non lo faccio neanche con la missione pedagogica di “educare il pubblico”. Lo faccio perché penso che il teatro sappia muovere le cose come tutto ciò che avviene qui, ora, senza troppe mediazioni. Oggi il pubblico è ammaestrato, bulimico, algido, sempre entusiasta o silenziosamente indignato. Non fischia, non s’incazza. Si lascia prendere. È come un video di YouTube. Premi “play” e lui applaude. Punto. Anche se non gli è piaciuto quello che hai fatto o non ci ha capito niente. Ci vizia. E noi lo temiamo. Temiamo che l’incanto si spezzi. Ce lo costruiamo il pubblico: a nostra immagine e somiglianza. Si parte dagli amici e parenti e si approda agli amici addetti. Si elemosinano conferme dal pubblico. Lo si vuole far riflettere, scandalizzare, ferire, ma poi gli si vuole piacere, sempre. Credo, nel mio piccolo, forse con spocchia, che noi non sappiamo più cosa sia il pubblico: abbiamo perso il senso, la dimensione, il significato del pubblico. È gente che paga o che recensisce. Penso che si dovrebbe rinnovare il pubblico per rinnovare la scena. E che questa impresa cominci dal ricreare il rapporto con il pubblico che non è rottura della quarta parete o bagarre intellettuale, ma dialettica. Non dico niente di nuovo. Ma la dialettica non è soltanto rendere partecipe il pubblico e interrogarlo… la dialettica è percezione: restituzione di ciò che arriva, rifiuto di ciò che non mi torna, conflitto, dialogo, solidarietà. E, nel teatro, magia. Gioco di seduzione. Il pubblico non deve essere stuprato, ma coinvolto. Come se gli si preparasse una vasca calda, circondata da candele, piena di oli profumati – dove poi fare l’amore. Ecco: col pubblico si deve recuperare quella straordinaria, spontanea, geniale dialettica che mettiamo in gioco con chi ci piace, con chi desideriamo come amante o compagno. La stessa temerarietà, morbidezza e fantasia. Il pubblico deve essere messo nella condizione di cedere o rifiutarci. Di fermarsi ad un bacio o andare avanti. Di salire a casa o restare al portone. Non deve staccarsi mai, non deve mai gelare e non deve mai smettere di desiderare, di fuggire, di tornare. Così è divertente, soprattutto per me, così è spettacolo.

C’è un’opera in particolare alla cui nascita sei particolarmente legato?

Tutte hanno una nascita speciale. Per me dipende sempre da qualche rapporto. Storia di Lei e di Lui, #vogliolaluna, di Pelle e di Schianti sono nati tutti e tre per amore di due ragazze che mi hanno segnato. Ma forse quella cui sono più affezionato è Kody & i pennuti. È il testo che ho scritto per il mio primo laboratorio di non professionisti, per lo più pensionati, al Centro Culturale Lepetit. Persone meravigliose. Il testo è nato disordinatamente, spesso si è bloccato, trasformato. La sua evoluzione dipendeva dal rapporto con gli allievi, non dal lavoro effettivo. Da quello che reciprocamente provavamo gli uni per gli altri. E all’improvviso era lì. Completo, divertente, pulito, ricco e inquieto.

Hai avuto esperienze molto eterogenee, che immagino abbiano segnato e indirizzato il tuo percorso.

Sì, e sono state tutte importanti. Affronto ogni nuovo lavoro come se cominciassi una nuova storia d’amore. M’innamoro delle situazioni in cui sono. Delle nuove cose. Ma è una sensazione quella che davvero mi ha fatto crescere: la fatica. Quella fisica del tecnico, del montatore, dell’attore. Quella psichica del drammaturgo e del regista. Quella economica in generale. La fatica, il crollo di progetti che sembravano magnifici, la sparizione e la delusione di persone che sembravano fidatissime. Ecco, anche la delusione. Ho subito molti, molti colpi. Alcuni meritati, altri ancora devo elaborarli. Questo costante gioco della pignatta mi apre gli occhi ogni giorno. Un giro sto appeso all’albero ad incassare bastonate, l’altro le do. Ed è forse questa strana, difficile giostra il portento del nostro lavoro oggi. Paradossalmente il teatro ti costringe a fare i conti con la vita e la realtà. Ti mette davanti i tuoi limiti, i tuoi pregi – ti propone senza posa una strada da percorrere, qualcosa da cambiare, intuizioni da realizzare, inganni da smascherare. Quindi è un percorso, quello teatrale, che consiglio a tutti. Fa bene, se lo si fa con le persone giuste.

Hai lavorato a contatto con persone impegnate in un un percorso di riabilitazione alla vita sociale, come nel caso dei laboratori Filo Rosso in Carcere (Regina Coeli). Cosa pensi della drammaterapia?

Non credo nel potere terapeutico del teatro. Il teatro è catartico e liberatorio, ma non terapeutico. C’è una grande differenza. La catarsi, e cioè lo svuotamento viscerale che porta ad un senso di serenità interna dopo un forte stravolgimento, è simile al grido di chi arriva primo alla fine di una corsa… non ha nulla a che fare con la guarigione. Tutto ciò che è terapia, infatti, ha il dovere di portare alla guarigione del paziente. Il teatro non è medicina, può essere un infuso, un decotto, ma per certe cose c’è la psicoterapia, non il teatro. È innegabile, altresì, che il teatro aiuta a sciogliere certe contratture, a smussare certi spigoli del carattere. Ti insegna a parlare in pubblico, sostenere uno sguardo, rompere il ghiaccio, muoverti in modo bello, parlare nel modo giusto e anche a capire di più la persona che hai davanti, cogliere certi segnali nascosti, magari… ma resta tutto molto superficiale, anzi, “caratteriale”. Non è psichico. La tua personalità può crescere e strutturarsi intorno e grazie al teatro, ma non può essere radicalmente trasformata dal teatro. Per quanto io ritenga la drammaterapia un’ottima disciplina dello spettacolo, fatico ancora a considerarla un’alternativa alla psicoterapia. Potrebbe magari esserne un incentivo, una compagna, favorendo la rappresentazione del proprio percorso di guarigione e della propria malattia che sbiadisce. Ma non più di questo. È la differenza che c’è, credo, tra il prendere un antidolorifico contro un forte mal di pancia e l’operarsi al colon per ripristinare la salute originaria.

In due casi sei stato anche interprete dei tuoi testi. Qual è il tuo approccio alla recitazione, da attore e da regista?

Non amo molto recitare. O meglio, mi diverto tantissimo quando sono davanti al pubblico, perché mi piace guardare la gente negli occhi, studiare le reazioni, giocare. Ma in questo senso mi piacerebbe più fare l’imbonitore. Amo però gli attori. È una banalità, ma è così. Con loro, quando li dirigo, cerco di essere onesto e pulito. Duro, se serve – senza umiliarli mai. Li ascolto, molto. Accolgo le proposte efficaci, lavoro sulla loro creatività. Detesto le loro lamentele. Chiunque lavori nell’arte guadagna poco, ha poca visibilità… non è una novità. Gli attori sono una categoria particolarmente problematica, è facile raggirarli e deluderli. Arrivano da te spesso demoralizzati, depressi, sfiduciati, guardinghi, giudicanti. Si comportano come sabotatori, calcolatori, in modo confuso e freddo. Reagiscono così alla quantità di cose brutte o fallimentari che sono costretti a fare e al generale abbandono e menefreghismo del contesto in cui si muovono. Quindi, prima di tutto, il mio compito è ricostituire una fiducia e un’innocenza nel rapporto con me. Una parità umana e una gerarchia professionale. Una solidarietà del mestiere. Non sono esigente, ma sono severo. Non mi importa l’età e l’esperienza di chi ho davanti, ma pretendo la “presenza”. Tu sei qui con me ora e hai il dovere di reagire a quello che succede e di partecipare al lavoro. Prima di studiare il testo e di lavorarci sopra, faccio un laboratorio. Per scioglierli. Cerco di unire tutto ciò che si può provare lavorando o assistendo ad una messa in scena. Devono ridere e piangere. Lasciarsi andare e acquistare consapevolezza. Lavoro quindi sul corpo, sul ritmo e sull’immaginazione. Durante il montaggio vero e proprio entro in dialettica. Studio la reazione dell’attore alle indicazioni della regia. Costruisco una gabbia, un vestito. Capisco se l’attore lo fa suo o si oppone. Nella seconda ipotesi la regia si arricchisce. Il conflitto e l’intoppo creano una nuova strada che percorro fino alle estreme conseguenze con l’attore. Se funziona diventa scena, se non funziona si torna all’origine e si rimuove il problema affrontandolo apertamente. Il mio lavoro con l’attore è giocoso, fluido e deciso. Non sempre riesce come vorrei. Capita di alzare troppo il tiro o di non capire davvero l’attore che hai davanti. Il prodotto ne risente. Questo è inevitabile essendo io tutt’ora in formazione. Le cose non riuscite ottimamente o non riuscite affatto sono dure da digerire, ma fondamentali: ti costringono ad aprire gli occhi, a scendere dal piedistallo e a recuperare un senso di realtà. Vedi il problema e lo affronti. Se è tuo studi per risolverlo e per non cascarci più. La regia successiva sarà più forte. Penso che il miglior critico per un regista sia l’attore, una volta che si trova davanti al pubblico.

Ti trovi più a tuo agio a dirigere testi di cui sei anche autore?

In realtà come regista preferisco lavorare su testi che non conosco. Quelli che scrivo io sono identici a come li dirigo. Scrittura e regia coincidono. Creo racconti sia come drammaturgo che come regista. E credo che questo non tiri necessariamente fuori il massimo da un mio copione.

Una curiosità: possiedi dei quaderni di regia? Ti fai seguire da un assistente?

Ho molti quaderni, sì. Disordinati. Non mi preparo mai le regie prima, cerco di farle affiorare dal vivo, nel lavoro con l’attore. Ma riempio i quaderni di appunti, ovviamente. Anche se cerco il più possibile di ricorrere alla memoria pura e semplice. Più che un’assistente ho una collaboratrice, Azzurra Lochi. Posso dire che le mie ultime regie sono mie solo per metà. L’altra metà è merito suo. Ha serietà e creatività incredibili e un’intuizione fuori dal comune. La stimo moltissimo. Nei laboratori mi accompagna Simone Caporossi, dotato di capacità e talento, (soprattutto di teatro fisico e di organizzazione del gruppo), formidabili. Anche con lui è una collaborazione più che un’assistenza. Su quattro ore di laboratorio due sono sue.

Andiamo nel particolare: le ultime soddisfazioni professionali, i progetti prossimi e futuri.

La fondazione di Anonima Sette su tutto, poi i successi di B/Ride, Luciano Melchionna che decide di sostenermi dirigendo Ophelia, semplicemente perché gli è piaciuto il testo, l’impegno, straordinario, in questo progetto di Giulia Fiume e Federico Lepera, cui va il merito della produzione e diffusione di Ophelia.

I prossimi progetti sono Ophelia in anteprima nazionale al Teatro dell’Orologio il 21 e il 22 febbraio, B/Ride al Teatro Lo Spazio il 26 e 27 marzo e al Teatro Studio Uno dal 4 al 7 maggio, Arkady, (spettacolo di presentazione dell’Anonima Sette), a Carrozzerie N.o.t e Le Luci (per la regia autonoma di Azzurra Lochi) in Primavera. Più i laboratori di Anonima Sette, che cominciano ad essere tanti: a Valle Aurelia (grazie alla generosa disponibilità dello Spazio Sociale Ex51), in zona Cassia, Boccea, Tor Tre Teste…

La tua ambizione ultima. 

Che si possa dire un giorno: ha amato così intensamente il suo lavoro, che un mucchio di gente ha cominciato a farlo dopo averlo conosciuto.



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